L’emergenza baby gang a Napoli in questi giorni è fonte di analisi e interpretazioni. Qualcuno adduce cause “locali”: è Napoli ad essere sbagliata e di rimando lo diventa anche la crescita di chi lì ci nasce. Altri inseriscono invece il fenomeno all’interno di una fatica di crescere che non è geolocalizzabile: ci siamo dentro tutti – noi genitori con i nostri figli – e non dipende dalla regione di residenza.
Io penso che il luogo dove nasciamo e cresciamo ci influenza e indubbiamente ci porta a scegliere di fare o non fare certe cose. Allearsi con altri minorenni per attaccare un coetaneo in modo brutale e violento e rubargli il cellulare può essere possibile solo laddove si percepisce che le regole del vivere civile sono relative e che la legge del più forte è quella che impera su tutto.
Forte ovvero prepotente. Forte ovvero violento. Forte ovvero illegale.
Quando la trasgressione - che in adolescenza affascina tutti – si trasforma in illegalità e si connota con i fatti che la cronaca ci sta mostrando c’è qualche cosa di profondamente sbagliato anche nel contesto socio-culturale che quel fenomeno ha prodotto. Napoli da sempre combatte con un male di vivere che in alcuni quartieri ha un’evidenza innegabile. E’ una città che ha problemi enormi di abbandono scolastico e in cui la società civile ha provato a contrastare l’illegalità e la vulnerabilità di crescita dei piccolissimi con alcuni dei migliori e più avanzati progetti di educativa di strada (un esempio su tutti: il progetto CHANCE). Proprio come ha proposto il ministro Minniti per gestire - e speriamo anche risolvere in parte il problema - non c’è solo bisogno di riempire le strade della città di più presidi di forze dell’ordine, ma probabilmente serve anche che nei quartieri comincino ad essere presenti educatori di strada, figure capaci di intercettare la devianza, nel percorso di crescita, quando ancora è al primo stadio e non si è già strutturata in modo sistematico portando a fenomeni come quelli che abbiamo saputo dai media.
Io penso che i nostri ragazzi stanno crescendo in contesti urbani e sociali dove non c’è più posto per loro. Dove non ci sono più adulti che ne curano la crescita, con un occhio attento e uno sguardo amorevole. Dove i politici hanno negli ultimi decenni ceduto l’occupazione del suolo pubblico a chi costruisce centri commerciali, sale da gioco, spazi di commercio e mercato, in cui c’è sempre qualcosa da vendere o da comprare. Se sei giovane, puoi trovare altri giovani al centro commerciale oppure in luoghi per accedere ai quali devi acquistare un biglietto di ingresso o ancora in locali dove la consumazione è obbligatorio e quasi sempre alcolica.
In tutto questo i nostri figli sono rimasti soli. E hanno sperimentato che l’adulto non è interessato a loro, non presidia la norma, non fornisce affetti, non sostiene, non risolleva quando sei caduto. Ti devi arrangiare. Devi trovare la tua strategia di sopravvivenza. Devi capire da solo chi vuoi essere e per che cosa vale la pena a stare al mondo. E il corto circuito è divenuto quasi automatico: la legge del più forte è la legge che ti permette di essere, di avere il tuo posto, di meritarti visibilità e rispetto. E’ un vuoto morale e sociale, culturale ed educativo quello che fa da terreno di cultura ai fatti delle baby gang di Napoli. Ma che ha il suo habitat non solo lì: bensì in tante altre periferie ugualmente riempite di locali dove gli adulti hanno qualcosa da vendere a chi cresce e nessun esempio da offrire.
C’è un disperato bisogno di educatori, nella nostra società. Educatori in famiglia, per cominciare. Mamme e papà dovrebbero domandarsi quante volte al giorno guardano negli occhi i loro figli. E’ lo sguardo di chi ti educa il primo elemento che ti permette di percepire se quello che hai appena fatto è una cosa buona o una cosa cattiva. Un bambino che ha fatto una marachella non ha bisogno di molte parole: gli basta lo sguardo di un adulto puntato nel suo per capire che ha fatto qualcosa di sbagliato. Qualcosa che chiede di essere rimediato. I nostri figli sono disperatamente alla ricerca di qualcuno che li guardi diventare grandi e che intanto li ami. E se non lo trovano allora si fanno guardare dalle telecamere di sorveglianza che immortolano le loro imprese tragiche e immorali, di cui non comprendono in alcun modo le implicazioni morali, legali fino a quando non intervengono le forze dell’ordine.
Ma c’è bisogno anche di educatori a scuola, nella comunità, nella società civile. Figure presenti, pazienti e disponibili che hanno una passione forte verso i bisogni di crescita di bambini e adolescenti e che non ne fanno oggetto di mercato.
E infine c’è bisogno di figure educative anche tra i nostri politici. C’è bisogno che sentano che il loro è un potere di servizio, che deve mettersi a disposizione di chi è vulnerabile e ha bisogni speciali. Oggi, molti nostri ragazzi sono portatori di bisogni speciali. Che purtroppo nessuno vede.
La politica negli ultimi anni ha avuto da gestire la crisi economica, l’emergenza dei posti di lavoro, l’urgenza che il fenomeno dei migranti ha portato con il tema dell’integrazione in ogni comune di Italia, piccolo o grande che sia.
Oggi, i fatti di Napoli rimettono al centro il concetto di “emergenza educativa”, due parole che abbiamo sentito più volte in questi anni, ma che nessun programma politico ha mai toccato per davvero. E invece, come leggiamo sulle prime pagine dei giornali, non si può più aspettare. E’ tempo di fare qualcosa.
Al Nord, gli oratori sono spesso quei luoghi in cui c’è educazione e prevenzione. Sono spazi che accolgono tutti, senza distinzione di etnia e di religione. Lo sanno bene gli amministratori locali che in estate – grazie ai GREST – vedono automaticamente risolta l’emergenza che riguarda molte famiglie, i cui genitori, dovendo lavorare, non saprebbero cosa proporre ai propri figli. Decine di migliaia di bambini e ragazzi che vengono educati, animati, fatti giocare da persone che hanno un’ideale e che hanno a cuore la crescita. Forse è proprio dall’esempio e dal modello dei luoghi educativi inventati da Don Bosco e dalla sua straordinaria passione educativa che si dovrebbe ripartire, per far crescere futuri cittadini capaci a loro volta di far crescere la città in cui sono nati. E non corresponsabili del suo degrado, come le cronache di questi giorni da più parti sembrano dimostrare.
(foto Ansa)