Tanto tuonò che piovve. Damiano Michieletto, 37enne veneziano, enfant (gâtée o terrible, a scelta) dell’intellighenzia che conta, ha finalmente esordito alla Scala nel Ballo in maschera, opera di Verdi fra le più belle (e più difficili). L’esordio non è stato granché felice, come del resto era facile prevedere. Affidare alle cure di Michieletto un melodramma verdiano equivale infatti a trovarsi dinanzi a qualcosa di oggettivamente diverso, diciamo pure sconvolgente, rispetto a quanto si può ricavare dalla lettura del libretto. Intenzionato a «rileggere la drammaturgia avvicinando la storia alla nostra sensibilità», il regista ambienta l’opera durante una campagna elettorale d’ispirazione statunitense, all’insegna dei vizi privati e pubbliche virtù del candidato Riccardo. Una nota curiosa è offerta dalla fattucchiera Ulrica, qui trasformata in una santona bianco vestita (il che non le dona), che alla maniera di certi predicatori televisivi americani dispensa predizioni e guarigioni “miracolose”.
Alla fine, colpo di scena: l’assassinato Riccardo si sdoppia, il corpo giace a terra ma il tenore canta passeggiando sul palcoscenico fra gl’inesistenti ballerini mascherati (non di un “ballo in maschera” si tratta, bensì di un party elettorale). Già c’era stato un volantinaggio bellicoso dall’alto del loggione, ma questa morte fasulla è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Una rabbiosa contestazione ha accolto la comparsa di Michieletto, il quale ringraziava il pubblico, dando un ideale appuntamento alla prossima puntata. Con questo tipo di regia contano sempre meno, ma c’erano pure i cantanti, anch’essi in parte contestati. A cominciare dal baritono Zeljko Lucic (Renato, qui trasformato in body guard), che nell’aria del terzo atto tentò di darsi un certo contegno, proseguendo con l’Ulrica di Marianne Cornetti e l’Oscar di Patrizia Ciofi (affiocchita nel timbro), tramutata in public relation woman e quindi privata dell’ambiguità sessuale che caratterizza il personaggio.
A equilibrare la situazione provvedettero Sondra Radvanovsky – voce rigogliosossima ma poco rifinita di autentico soprano drammatico, che all’inizio del secondo atto salvò la baracca che stava per affondare – e il protagonista Marcelo Alvarez, che distribuì non senza fatica il suono della sua un tempo splendida voce, ma comunque delineò un Riccardo abbastanza convincente. C’era infine un direttore, Daniele Rustioni, che viene giustamente considerato promettente, ma questo Ballo in maschera non sembrò contribuire a rafforzare tale fama.