Sono almeno 215 milioni i minori nel mondo costretti a
lavorare, la metà dei quali sono soggiogati alle forme peggiori quali
sfruttamento sessuale e
"compravendita". Tanto maggiore è la povertà di un Paese, tanto
superiori sono i rischi di degenerazione in tale direzione: anche l'Italia non
è immune da questa piaga se è vero, come dice l'Istat, che lavorano 144 mila
bambini tra i 7 e i 14 anni, cifra che invece secondo l'Ires - Cgil si aggirerebbe intorno ai 400 mila.
Tra
i promotori della campagna internazionale "Stop child labour - School is
the best place to work", il Cesvi da anni è impegnato nella realizzazione
di "zone franche" anche nei contesti più difficili in cui la povertà
regna sovrana. L'occasione per fare il punto della situazione è la Giornata
mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile fissata per il martedì 12
giugno.
In particolare, presentiamo i dati di uno studio effettuato
in Kenya dove, dal 2011, il Cesvi ha avviato un articolato progetto per porre
un freno alla sfruttamento del lavoro minorile, puntando sul coinvolgimento di
tutte le parti sociali nella convinzione che l'unica strada percorribile sia
quella di una maggiore consapevolezza a tutti i livelli. Da una parte c'è lo
Stato, rappresentato dalle carceri minorili e dalle case di reclusione dove
adolescenti con precedenti penali, in molti casi vittime di sfruttamento, necessitano
di un adeguato supporto psicosociale per rielaborare i drammi vissuti e di
un'offerta formativa alternativa credibile su cui costruirsi un futuro diverso.
Dall'altra si è cercato di far comprendere alle imprese operanti sul territorio
che il "Child labour free certificate", cioè il certificato che
attesta il non impiego di baby lavoratori, non è un ostacolo alla crescita
aziendale ma, anzi, può diventare un motivo di orgoglio e un'occasione di
crescita perché, offrendo all'esterno un'immagine migliore, è anche più facile
trovare investitori o partner stranieri. In mezzo, ovviamente, l'impegno
costante dei cooperanti che accompagnano i ragazzi sulla strada che intende
riportarli a essere protagonisti delle loro vite nella pienezza dei propri diritti
universalmente riconosciuti e che vigilano con un'attenta opera di monitoraggio
delle catene produttive insistendo sulla promozione dell'impiego adulto.
L'ambizione di Cesvi in Kenya come in altri Paesi del mondo
in cui è impegnato, dunque, è
realizzare delle aree interamente libere dal lavoro minorile: nello
specifico, operando in profondità nelle province di Nairobi e Nyanza, ci si
augura che si inneschi un circuito virtuoso che si estenda anche nel resto del
Paese. Lo studio, effettuato in questi ultimi dodici mesi, ha fotografato una
situazione ovviamente drammatica in cui si nota come le bambine e le
adolescenti siano maggiormente sfruttate nel lavoro domestico, nell'agricoltura
e nella prostituzione, mentre i maschi "dominano" i settori del
riciclaggio dei rifiuti e della pesca: lavori usuranti, anche e soprattutto per
dei minori, che sfociano in molti casi nel totale calpestamento dei diritti
inviolabili dell'infanzia.
Il 56,4% dei bambini vittime di sfruttamento iniziano a
lavorare tra i 5 e i 9 anni: nelle aree urbane vengono assoldati in modo
illegale nel business "informale" del riciclaggio dei rifiuti, al di
fuori delle grandi città predomina lo sfruttamento nel settore minerario. Da
segnalare anche il trasferimento di minori dalle zone rurali, dove vengono
venduti per pochi soldi, ai grandi centri come Nairobi (dove finisce il 95,45
del totale dei bambini oggetto di "traffico"): la loro nuova
destinazione prevede riduzione in schiavitù per lavori domestici o mercato della
prostituzione.
Già, perché tra le conseguenze negative che il lavoro
minorile comporta ci sono anche quelle legate allo stato di
salute: nei bambini
lavoratori si registra un'incidenza altissima di tagli, ferite e, in generale,
di malattie di ogni genere provocate o aggravate da malnutrizione (soprattutto
nella provincia di Nyanza) o abusi (soprattutto nella provincia di Nairobi): il
77.7% di coloro che hanno risposto al sondaggio ha ammesso di aver registrato
nell'ultimo periodo almeno 1-2 casi di morte di minori imputabile al lavoro
svolto.
In linea generale la causa principale che porta al lavoro
minorile è la povertà: in Kenya il 75,9% delle famiglie di origine dei bambini
sfruttati vive sotto la soglia di povertà individuata convenzionalmente in 60
dollari al mese: solo un bambino su quattro trattiene per sé quello che
guadagna, gli altri lo danno integralmente ai genitori o a chi si
"occupa" di loro (integralmente nel 26,8% dei casi, in parte nel
47,8%). Tra le concause che costringono i minori a lavorare, la morte o la
separazione dei genitori o il rifiuto a riconoscerli e a prendersene cura.
In questo percorso di costruzione di una maggiore
consapevolezza, i bambini stessi sembrano essere i più pronti: di fronte a domanda
diretta, infatti, non hanno dubbi. Ben più della metà vorrebbe tornare a scuola
a tempo pieno, mentre la restante parte degli intervistati ha confermato la
disponibilità a lavorare purché in servizi prevalentemente domestici, ma non
prima dei dieci anni.
Diego Ottolini, responsabile Cesvi in Kenya dove si trova
attualmente, a corollario della ricerca ci ha scritto una nota per fare
il punto sulle criticità del progetto:
«Innanzitutto i sistemi di protezione dell'infanzia a livello
comunitario si
devono integrare con la volontà politica del governo di mettere in atto
interventi di riforma nel settore della protezione minorile. La ricerca
del
consenso sulle attività svolte deve passare necessariamente dalla
disponibilità
della società civile a collaborare attivamente. Una leva vincente per il
successo
del progetto è la resilienza dei ragazzi, cioè la loro innata capacità
di far
fronte a eventi traumatici con rinnovate energie e speranze. Infine,
bisogna
riuscire a tenere saldi i legami familiari, soprattutto in ambito rurale, là
dove si registrano i dati più sconcertanti sulla vendita di bambini».