Aya vive in uno
squallido insediamento di tende in un frutteto di mandorle a Sawiri,
proprio al confine con la Siria, vicino alla strada tra Damasco e
Beirut. Ha 11 anni e si prende cura di suo fratello di 7 anni e della
sorella di 4; sono tutti insieme ad uno zio. Giovedì scorso, in una
delle attività ricreative supportate dall’Unicef, per la prima
volta ha raccontato di aver visto suo padre esser fatto a pezzi
davanti ai suoi occhi.
Ahmad, 12 anni, invece
vive a Za’atari in Giordania, il secondo campo per rifugiati più
grande al mondo, dove cammina da solo tra oltre 120 mila persone.
Sorride strofinandosi gli occhi gonfi: «Ma
qui mi hanno dato le medicine».
Ahmad è arrivato a Za’atari dopo 70 chilometri in autobus da
Irbid, dove i genitori lo avevano affidato alla nonna. Raccontandoti
perché un bambino di 12 anni è partito da solo per passare il
confine, ti spiega come la guerra in Siria stia rubando il futuro ai
più giovani: «Sono venuto
qui perché quattro o cinque volte al giorno la casa tremava per le
bombe». I suoi genitori sono
dovuti rimanere in Siria. E anche qui Ahmad ti spiega la guerra: «La
mamma e il papà sono la cosa più importante per me».
Secondo Marixie
Mercado, portavoce dell’Unicef, «sono
oltre 4.150 bambini siriani che hanno oltrepassato il confine verso i
Paesi vicini senza genitori o parenti adulti. Questo dato riguarda
soltanto i bambini che sono stati identificati e registrati, ma il
numero reale è chiaramente più alto».
Sono
1.170
“Ahmad”, tra i quali alcuni di appena nove anni, in Giordania,
oltre 300 nel nord dell’Iraq e ben 1.698 in Libano. Qui, nella zona
della Valle della Bekaa, alcuni bambini rifugiati sono stati
trasferiti e impiegati come lavoratori nell’agricoltura.
«Ognuno
di questi bambini»,
spiega Mercado, «è
stato vittima o ha assistito a livelli di violenza terribili.
Separati dai propri parenti o da coloro che se ne sono presi cura,
sono estremamente vulnerabili a sfruttamento e abusi».
Sono molteplici le ragioni per cui partono da soli: «Molti
hanno perso le proprie famiglie nei combattimenti e stanno scappando
per salvare le proprie vite. Alcuni per riunirsi con i membri delle
proprie famiglie, che sono fuggiti prima, oppure sono mandati via dai
propri genitori per paura che potessero essere arruolati in
combattimenti. Altri sono stati mandati via perché semplicemente non
c’è lavoro a casa e le loro famiglie sono in condizioni economiche
difficili, e solo così possono avere accesso a servizi di base come
acqua, cibo e riparo».
L’Unicef sta
lavorando con i suoi partner locali per identificare i bambini soli
per garantire loro protezione, che significa alloggi, supporto
medico, sostegno psicosociale e nell’istruzione. Lavora anche
nell’identificazione e nel ricongiungimento dei membri di una
stessa famiglia, come è successo a Hassan, 16 anni, arrivato solo al
campo di Za’atari. Lui è stato fortunato: in meno di ventiquattro
ore dall’arrivo, ha ritrovato la famiglia. Suo fratello Bilal
racconta: «Gli operatori di
Unicef/Irc mi hanno chiamato di notte dicendo che mio fratello era
qui. L’ultima volta che l’avevo visto era tre mesi fa».
Nei campi per
rifugiati, si prova a resistere anche organizzando delle scuole per i
tanti minori. Un ruolo significativo è affidato anche a volontari, a
loro volta sfollati. Come Nergiz Ibrahim, 29 anni, laureata in lingua
inglese all’Università di Damasco. Nonostante i quaranta gradi del
caldo iracheno, è felice di aiutare nelle classi dei bambini che, al
campo di Baherka, il 22 settembre hanno ripreso ad andare a scuola.
Se la situazione dei
minori siriani nei paesi confinanti è molto dura, anche i civili
intrappolati all’interno della Siria continuano a essere tagliati
fuori dall’assistenza necessaria di emergenza, cioé vaccinazioni,
acqua potabile, rifugi, istruzione e supporto psicologico. «Mentre
i combattimenti continuano, alcune aree sono sotto assedio da mesi e
mesi, lasciando le famiglie a lottare per la sopravvivenza»,
spiega Anthony Lake, Direttore generale dell’Unicef. «I
bambini della Siria hanno sofferto troppo e per troppo tempo, e
continueranno a sopportare le conseguenze di questa crisi per molti
anni a venire».
Una soluzione almeno
alle prime emergenze ci sarebbe. Ad esempio la prossima campagna di
vaccinazioni Child
Health Day,
con un focus speciale su 700 mila bambini che non sono stati
raggiunti durante le più recenti campagne di vaccinazioni.
Nell’anno
passato, l’Agenzia dell’Onu e i suoi partner hanno affrontato
grandi difficoltà nel raggiungere centinaia di migliaia di bambini
ad Aleppo, nella Damasco Rurale, a Homs, Deir ez Zour e nella Daraa
Rurale: scorte mediche, comprendenti vaccini, sono state trattenute
ai checkpoint,
e sono stati ritardati lavori di importanza vitale come la
riparazione di condutture d’acqua.
Per questo, l’Unicef
chiede di accedere senza ostacoli alle aree di guerra: «Noi
dobbiamo poter raggiungere questi bambini, con urgenza e senza
restrizioni. Il governo della Siria e i gruppi dell’opposizione
possono far sì che ciò accada da subito, consentendo agli operatori
umanitari di raggiungere i bambini con aiuti salvavita»,
conclude Lake.