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mercoledì 31 maggio 2023
 
 

Banca Mondiale: riforme in corso, ma con dure critiche delle Ong

14/09/2015  Il presidente Jim Yong Kim ha avviato nel 2012 un processo di riforma, che dovrebbe concludersi entro la fine del 2015, delle condizioni di salvaguardia sociale e ambientale per finanziare i progetti da parte dell’istituzione di Washington. Ma secondo molte organizzazioni non governative la strada non è affatto quella giusta. Anzi.

Una piccola comunità di anuak.
Una piccola comunità di anuak.

Dal 2006 al 2030 gli anuak, l’etnia che vive nella zona dell’Etiopia di Gambella vicino al confine con il Sud Sudan, sono i “beneficiari” di un Pbs, un Programma di promozione dei servizi primari finanziato dalla Banca mondiale e altri fondi internazionali. Due milioni di persone, pari al 60% di questo popolo, sono stati allontanati dalle terre dei loro antenati e ricollocati in altre zone. «Evacuazioni volontarie», la versione ufficiale; «chi si opponeva veniva picchiato, violentato e ucciso», quella delle testimonianze raccolte da Human Rights Watch e dal Consiglio di Giustizia degli anuak.

Ciò che è certo è che le loro terre sono state cedute a investitori privati. Quando a novembre 2014 l’Inspection Panel, un organo interno alla Banca mondiale, criticava lo sgombero forzato, il presidente Jim Yong Kim ha difeso il piano spiegando che, sebbene l’istituzione di Washington l’avesse finanziato, «è poi il governo etiope ad attuarlo».

Le critiche dell’Inspection Panel, unite a quelle dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulle popolazioni indigene, sono arrivate anche all’inizio del 2014, quando migliaia di abitazioni dei Sengwer, che da lungo tempo vivevano nella foresta di Embobut in Kenya, sono state bruciate per realizzare un progetto inteso a ridurre le emissioni di gas serra. Con l’aiuto degli esperti di Washington, il governo kenyano ha “protetto” la biodiversità della foresta, di fatto allontanando proprio il popolo che fino ad allora ne aveva avuto cura.

Medesima sorte dei contadini dell’Aguan Valley in Honduras, cacciati con sgomberi violenti per far posto alla piantagione di palma da olio di una multinazionale. Il tutto finanziato con i  milioni dell’istituzione internazionale.

È lungo l’elenco dei progetti di sviluppo della Banca mondiale che hanno sollevato le critiche della società civile. In particolare, i reinsediamenti forzati che fanno perdere casa e lavoro e l’assenza di controlli sull’esito delle misure compensative, il tutto per favorire la costruzione di grandi infrastrutture (dighe, strade…) come via per combattere la povertà.

Il 4 marzo scorso, era stato lo stesso presidente Kim a dire: «Dobbiamo fare meglio e lo faremo». Si riferiva ai due audit interni, resi pubblici da una fuga di notizie, del maggio 2012 e del giugno 2014, che rilevavano «significative debolezze».

«I reinsediamenti», ammette la stessa Banca mondiale, «sono una delle più gravi conseguenze dei progetti di sviluppo e possono causare drastici impatti socioeconomici e culturali, dato che gli sgomberati rischiano di perdere terreni, case, fonti di reddito e di sostentamento».

Intanto, però, i progetti sostenuti da Washington che prevedono esplicitamente il reinsediamento sono cresciuti di oltre il 400% negli ultimi vent’anni, dai 146 del 1993 (8% delle spese totali) ai 747 di fine 2009 (29%); più del 60% dei progetti che impongono alle persone di spostarsi “mancano di informazioni sullo status delle famiglie dopo il trasferimento”, specie per le comunità indigene. Un efficace sistema per eventuali reclami «esiste solo sulla carta ma non nella pratica», mentre ovviamente non aiuta che i sistemi giuridici dei Paesi più poveri difficilmente tutelino dagli abusi delle autorità locali. «L’incapacità di verificare che i nuovi insediamenti siano stati effettivamente completati», continua l’audit interno, «espone a serio rischio la reputazione della Banca Mondiale».  


La sede della Banca Mondiale di Washington.
La sede della Banca Mondiale di Washington.

Proprio per far fronte a queste criticità, pur annunciando che i reinsediamenti sarebbero continuati, il presidente Kim ha avviato nel 2012 un processo di riscrittura, che dovrebbe concludersi entro la fine del 2015, delle condizioni di salvaguardia sociale e ambientale per finanziare i progetti da parte dell’istituzione di Washington.

Lo scorso dicembre, l’Unhcr ha diffuso una lettera aperta a Kim, esprimendo la preoccupazione del suo Special Rapporteur sulla povertà estrema, Philip Alston, per la scelta di dare sempre la priorità alla rapida approvazione dei prestiti, piuttosto che aumentare gli standard di salvaguardia socio-ambientali. Questo spesso avviene nel timore che altri prestatori, soprattutto asiatici, possano assicurarsi il “business” dei prestiti ai Paesi in via di sviluppo. Anche il Nobel Women’s Iniziative, un gruppo di donne vincitrici del premio Nobel, aveva chiesto maggiori garanzie per i diritti dei popoli indigeni contro le grandi opere.

Arriviamo quindi alle tappe più recenti. A marzo 2015 viene resa pubblica la prima bozza di revisione, in realtà terminata già nel giugno 2014. Secondo 360 associazioni che in tutto il mondo monitorano quel progetto, abbasserebbe ulteriormente l’asticella a favore delle infrastrutture e a scapito dei diritti umani. Dice Antonio Tricarico di Re:Common, l’associazione nata dalla Crbm (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale): «Si continua a privilegiare il finanziamento di singoli progetti piuttosto che interventi più ampi e a lasciare alla discrezionalità dei governi il rispetto degli standard».


Il presidente cinese Xi Jinping con i leader dei Brics, i Paesi emergenti: Russia, India, Brasile e Sudafrica.
Il presidente cinese Xi Jinping con i leader dei Brics, i Paesi emergenti: Russia, India, Brasile e Sudafrica.

Il 4 agosto, la nuova bozza, frutto di un forte scontro politico all’interno della Banca e tra gli stessi vicepresidenti: da un lato, i Paesi emergenti hanno spinto per allentare ulteriormente i vincoli socio-ambientali; dall’altro, l’Europa ha giocato in retroguardia senza rilanciare su nulla.

Molte Ong, tra cui Oxfam, Human Rights Watch, Trade Union Confederation e Re:Common, hanno criticato il risultato, un compromesso che conferma le scarse ambizioni della versione di marzo. «La nuova bozza», dicono, «smentisce l’impegno del presidente Kim di non indebolire le condizioni di salvaguardia sociale e ambientale». Il tema dei diritti umani compare unicamente in un preambolo. Denuncia Jessica Evans di Human Rights Watch: «Sono trattati solamente come un’aspirazione, piuttosto che come un vincolo obbligatorio del diritto internazionale. Il rifiuto della Banca di esigerne il rispetto trasmette il messaggio che i diritti umani sono discrezionali». Aggiunge Korinna Horta della Ong tedesca Urgewald: «Mancano anche chiari obblighi sulla trasparenza nei budget».

A fine anno ci sarà la versione finale, ma alle Ong la direzione non sembra affatto quella giusta. Peraltro la definizione dei nuovi standard di Washington coincide con il lancio, lo scorso marzo, della Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (Aiib) con sede a Pechino, alternativa alla Banca mondiale tradizionalmente a guida statunitense (come lo stesso presidente Kim).

Il promotore dell’Aiib è il presidente cinese Xi Jinping e l’avvio è stato un successo: erano preventivati 50 miliardi di dollari ma, grazie alla pronta adesione dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), il capitale raccolto in pochi mesi è raddoppiato, raggiungendo i 100 miliardi.

Sono rimasti fuori, come era prevedibile, Stati Uniti, Canada e Giappone e Taiwan, mentre hanno aderito 57 paesi, tra cui l’Australia e vari europei (Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Germania, l’Italia con 2,5 miliardi). Proprio in contemporanea al dibattito in corso a Washington, anche all’interno della nuova banca – o meglio, del suo contraltare guidato dal Dragone cinese – si stanno decidendo gli standard per finanziare i progetti di sviluppo…


 
 
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