Le carrette del mare e poi? Dove
finiscono le persone che sbarcano sulle spiagge italiane?
Tendenzialmente le strade sono due e la discriminante è la richiesta
di asilo politico. Da un lato, chi non chiede l’asilo spesso
finisce nei Cie (Centri di identificazione e espulsione), in attesa
di essere rimpatriato oppure rilasciato con un foglio di via che
ordina di lasciare l’Italia entro pochi giorni.
Dall’altro lato, ci sono quelli
che invece chiedono l’asilo o la protezione umanitaria e che
vengono ospitati in uno dei sette Centri di Accoglienza per
Richiedenti Asilo politico, in sigla Cara.
Quello di Bari Palese è
stato allestito nel 2008 nel vecchio aeroporto militare: un
piccolo villaggio di 124 moduli prefabbricati, montati su un grande
piazzale di cemento, intorno a un grande tendone usato come mensa e
sala comune.
Nei giorni scorsi, però, la Cgil
di Bari, i Padri Comboniani, le Acli Puglia e le associazioni Abusuan
e Saro Wiwa hanno depositato alla Procura della Repubblica un esposto
sulla «palese
violazione dei diritti umani»
delle persone ospitate nel Cara di Bari. Pino Gesmundo, segretario
generale della Cgil barese, ne spiega le ragioni.
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Perchè avete scelto la strada di un esposto alla Procura?
«In
questi anni non sono mancate le denunce politiche e i problemi sono
ben noti, ma ci sembrava necessario un atto forte, con cui chiedere
alla magistratura di verificare se ci siano delle responsabilità per
una situazione perennemente in emergenza. Noi promotori siamo tutte
associazioni che da anni monitorano i diritti dei migranti: nel Cara
di Bari, vive un mondo di poveri che va tutelato».
-
Perché parlate di “palese violazione dei diritti umani”?
«La
capienza è di 744 posti, ma sistematicamente nel Cara ci sono 1400
persone, il doppio; tra di loro, ci sono anche donne e bambini.
Questo sovraffollamento
viola la capienza vitale minima di 7 metri quadrati per ogni persona
detenuta e/o ospitata, prevista ad esempio dall'articolo 3 della
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, e dall’articolo 4 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Ue. È evidente che il sovraffollamento
porta a gravi condizioni igienico-sanitarie, particolarmente
pericolose per quei casi di malati o di persone affette da Hiv. Va
tenuto presente inoltre che siamo di fronte a persone che non hanno
alcuna colpa, ma scappano dalla persecuzione e dalla guerra e
rivendicano un diritto previsto dalla Costituzione e dagli accordi
internazionali».
-
Da dove nasce il sovraffollamento?
«Secondo
la legge italiana, la permanenza nei Cara può durare da 20 a un
massimo di 35 giorni. In quello di Bari, mediamente, si è reclusi
per mesi e mesi, a volte per anni. Il motivo? La lunghezza
inaccettabile delle pratiche per la concessione, o il rifiuto,
dell’asilo politico: quasi sempre passano mesi prima di essere
ascoltati dalla Commissione territoriale del capoluogo pugliese. In
queste audizioni, poi c’è un’altra violazione della normativa:
spesso mancano degli interpreti competenti per l’esposizione della
propria storia personale, decisiva ai fini dell’ottenimento
dell’asilo».
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Come si passa il tempo nel Cara?
«Spesso
senza fare niente, in condizioni di stress e tensione psicologica.
C’è una ludoteca, ma teoricamente la permanenza dovrebbe durare
solo qualche settimana e quindi non sono pensate attività sul lungo
periodo per favorire l’integrazione successiva. Inoltre, gli spazi
e il personale che gestisce il centro sono pensati per 744 persone,
non 1400».
- Lo scorso mese, in una
rissa tra i detenuti, è morto un immigrato curdo di 26 anni.
«In
quell’occasione, abbiamo organizzato anche una manifestazione. La
magistratura ha aperto un’indagine e vedremo i risultati, ma ci
pare molto grave che un episodio del genere sia avvenuto all’interno
di una struttura vigilata. Pensiamo che sia il frutto della tensione
e della frustrazione che si vive nel Centro, unite alle condizioni di
emarginazione e di mancanza di socializzazione».
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Cosa chiedete?
«Nell’immediato,
il rispetto della legge: condizioni
igieniche adeguate, la fine del sovraffollamento e della reclusione
oltre i 35 giorni. Potrebbe essere molto utile favorire la
socializzazione e ampliare i progetti territoriali dello Sprar
(Servizio di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati).
In un’ottica più ampia, andrebbero ripensate le modalità di
ottenimento dell’asilo politico e anche queste strutture. Al posto
di un enorme ghetto all’estrema periferia della città, pensiamo a
strutture di dimensioni più umane, da integrare nella città, senza
mezzi di trasporto usati solo dai “diversi”. Vanno evitati i
ghetti fisici e quelli mentali: altrimenti, i baresi continueranno ad
avere un’immagine distorta e negativa di persone in realtà
bisognose di aiuto e in fuga da gravi situazioni».