Delegazione di "Mamme no Pfas" al parlamento europeo
“Contaminati”. Giusto due anni fa scoprono con sgomento che i loro figli sono dei contaminati. Ad avvelenarli è stata l’acqua che hanno bevuto. Quella che esce dai rubinetti di casa. E chi sapeva non ha dato l’allarme. Si sono sentite tradite, ingannate, ma non sconfitte. Così hanno deciso di mettersi assieme per dire basta alle bugie e provare a risolvere il problema a modo loro, da mamme, con fantasia, determinazione e la forza di chi sa di perseguire una causa giusta.
“A marzo del 2017 arriva a mia figlia di 15 anni l’invito per uno screening medico”, esordisce Giovanna. “La Uls le chiede di recarsi all’ospedale di Lonigo, Comune dove risiediamo, per un esame del sangue. Qualche giorno dopo arriva l’esito. Tutto bene, tranne un valore, il Pfoa (acido perfluoroottanico): 159,3 nanogrammi per millilitro di sangue, ben venti volte il valore massimo consentito che è di 8 ng. Che significa? Cos’è il Pfoa? Cosa rischia mia figlia?”. Giovanna cerca d’informarsi, ma le risposte dei medici sono evasive. Poi si rende conto di non essere la sola in quella situazione: altre famiglie del paese hanno i ragazzi con valori simili e anche più alti, fino a 600 ng.
Nello stesso modo si è materializzato l’incubo della contaminazione per tante altre famiglie in Lonigo e in altri 23 Comuni tra le province di Vicenza, Padova e Verona, la cosiddetta “zona rossa”, un’area di 150 chilometri quadrati nel cuore del Nord-est coinvolta in un vero e proprio disastro ambientale: la falda, che assicura l’approvvigionamento della rete idrica per 350 mila residenti, una delle più ricche d’Italia e d’Europa, è seriamente contaminata dalla presenza di Pfas, sigla che identifica le sostanze perfluoroalchiliche, composti chimici usati per svariate produzioni industriali che vanno dalle padelle antiaderenti ai tessuti impermeabili, dalle schiume antincendio agli stent coronarici.
La manifestazione dell'8 ottobre 2017 a Lonigo
UNA LUNGA STORIA D'INQUINAMENTO
Un’emergenza ambientale che ha pochi paragoni nel nostro Paese e che sarebbe rimasta sottotraccia, nonostante associazioni ambientaliste, comitati e autorità mediche avessero già segnalato il pericolo nel lontano 2013 e, sempre nello stesso anno uno studio del Cnr avesse indotto le società idriche che operano nel territorio a munire gli acquedotti di filtri a carboni attivi. Sotto accusa per l’inquinamento è finita la Miteni, azienda di Trissino, nel Vicentino, in mano alla holding tedesca Icig dopo vari passaggi di proprietà, che iniziò a produrre fuorurati, quando si chiamava Rimar, fin dal 1964, e che sorge proprio sopra la zona di ricarica della falda. La proprietà a fine 2018 ha chiesto e ottenuto il fallimento di Miteni, poco prima che la Procura di Vicenza, dopo due anni, chiudesse le indagini preliminari con 13 indagati per avvelenamento delle acque. Ad occuparsi della Miteni è stata pure la “Commissione d’inchiesta parlamentare sulle ecomafie”, dopo i sopralluoghi sul sito dell’azienda fatti dai Carabinieri del Noe l’anno scorso, il cui corposo rapporto, secondo Greenpeace, dimostrerebbe che la dispersione d’inquinanti poteva essere fermata già tredici anni fa. Nel frattempo, il 21 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha deliberato la Dichiarazione dello Stato di emergenza per la contaminazione da Pfas nei territori delle tre province venete e la nomina di un commissario.
“Da quando abbiamo ricevuto l’esito dei primi esami – continua Giovanna – la nostra vita è cambiata. Vivo l’ansia di notti insonni. Usiamo acqua in bottiglia per bere, per cucinare e lavare le verdure. Non mi fido più di mangiare i prodotti del nostro orto”.
Sulla pericolosità dei Pfas esiste una letteratura scientifica non ancora concorde, ma già ampia. “Sono sostanze che interferiscono sul funzionamento delle ghiandole endocrine”, afferma il dottor Vincenzo Cordiano, onco-ematologo presso l’ospedale di Valdagno, che ha svolto ricerche e pubblicato studi in materia, uno dei primi ad allertare l’opinione pubblica sui rischi per la salute per le persone esposte a Pfas. “Si rileva un aumento di mortalità per diabete, infarto miocardio, cancro del rene, malattie della tiroide, aumento del colesterolo e del diabete in gravidanza, come peraltro riscontrarono anche le indagini mediche negli Stati Uniti, dopo una vicenda simile di contaminazione”. Gli studi della Regione, poi, hanno confermato i risultati dell’ematologo.
LA MAMME "NO PFAS" SI ATTIVANO
“Così dapprima in poche, spaventate e confuse”, racconta Giovanna, “abbiamo iniziato a trovarci e a crescere, unite dall’amore per i nostri figli e la nostra terra e la determinazione di batterci per l’acqua pulita”. In pochi mesi sono diventate le “Mamme no Pfas”, un movimento di oltre un migliaio di madri-coraggio che s’è dato un’organizzazione per studiare il caso, pianificando ogni azione utile a trovare soluzioni all’emergenza e ad alzare al massimo il volume dei megafoni sulla vicenda che, ricordano, “non ha precedenti in Italia”.
“Siamo mamme che, per necessità, si sono trasformate in periti chimici, avvocati, medici, geologi, addetti stampa. Insieme lottiamo per la salute dei nostri figli e delle nostre famiglie”, spiega Fabiola Dal Lago, insegnante di lettere di Sarego, altro comune della “zona rossa”. A suon di petizioni, delegazioni e incontri pubblici, lettere aperte e manifestazioni di piazza, adesso sono in molti a dar loro ascolto. Whatsapp e Telegram fungono da collante. Ai gruppi partecipano anche mariti, contagiati dal loro attivismo. Hanno fatto presidio per cinque giorni e notti in tenda davanti alla Procura di Vicenza lo scorso agosto; hanno coinvolto tecnici che si sono occupati di disinquinamento nella “Terra dei fuochi”, ora che quest’area del Veneto, nel cuore del “mitico Nordest”, la terra dei pil e delle partite Iva da record, è diventata “Terra dei Pfas”.
Sono perfino riuscite a portare dagli Stati Uniti alla piccola Lonigo Robert Billot, l’avvocato ambientalista, esperto di inquinamento da Pfas, il primo legale a denunciare il caso di contaminazione delle falde acquifere del fiume Ohio, provocato dalla società Dupont, e patrocinatore della relativa vincente class action.
I loro “pellegrinaggi” non si contano più: nel giugno scorso sono già state a Bruxelles a sensibilizzare i parlamentari della Commissione Ambiente Ue; tre mesi dopo sono andate a Strasburgo per aggiornare i parlamentari in vista del voto sulla “Direttiva europea sull’acqua destinata al consumo umano”. Non si contano più i viaggi a palazzo Balbi a Venezia per incontrare il governatore Zaia e a Roma alla sede del Ministero per l’Ambiente. Hanno un filo diretto col vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, che le ha volute ascoltare in parrocchia a Lonigo. Lì hanno parlato di pfas, tra una lettura del Cantico delle Creature di San Francesco e la recita della “Preghiera per il dono dell’acqua pulita”, composta da “nonna no Pfas”, Annamaria Gatti, psicologa sessantaduenne, e che ora si recita in tante parrocchie della diocesi alla fine delle messe. “Guida tutti noi nel cammino verso la bonifica di quest’acqua – dice il testo - e di queste terre sofferenti. Illumina chi è causa di questo inquinamento e tutti coloro che sono preposti alla soluzione di questo disastro”. “Questo è un grande esempio di cittadinanza attiva portato avanti in modo pacifico e dialogante con tutti”, commenta Annamaria.
Di recente oltre un centinaio di “mamme no-pfas” hanno già chiesto di far parte del processo contro Miteni come parte offesa e hanno presentato istanza di accesso ai fascicoli dell’inchiesta. L’obiettivo è quello di fare massa per tentare una sorta di “class action”, com'è accaduto nella vicenda Dupont.
Uno dei manifesti della mostra "Faccedapfas"
LA CONTAMINAZIONE: "UN ATTENTATO AL DIRITTO DI MATERNITA'"
Ne abbiamo incontrate alcune nella sacrestia della vecchia chiesa parrocchiale di Lonigo. Hanno finito di pregare all’adorazione del Santissimo. Lo fanno spesso, anche di notte. “Perché siamo piccole e fragili; ma combattiamo una giusta battaglia”, spiega Cinzia, una delle mamme. C’è chi è impegnata in comunità col servizio liturgico, chi con gli scout. Chi fa la catechista, come Ivana, madre di Edoardo di 9 anni e Asia di 15, alla quale lo screening medico ha rilevato 51,7 di Pfoa e 272 di colesterolo. “Se esistesse, vi dovrebbero dare la laurea in utopia, ci ha detto qualcuno”. Si è portata i ragazzi del catechismo in manifestazione, l’8 ottobre 2017, quando, a Lonigo, le “Mamme no Pfas” sono riuscite a radunare in piazza undicimila persone, tra cui un centinaio di sindaci, e a farle marciare fino al Santuario della Madonna dei Miracoli. Niente bandiere di partito, niente comizi delle autorità. Solo una preghiera recitata dal vescovo Pizziol e dai rappresentanti delle comunità religiose musulmana e sikh. Dopo la manifestazione la Regione Veneto ha deciso di abbassare i limiti di Pfas nelle acque potabili per tutto il territorio regione, mentre per la “zona rossa” sono stati abbassati fino al cosiddetto “zero tecnico”.
“Abbiamo scoperto di essere tante, unite e piene di risorse. Abbiamo scoperto di avere il tempo per lottare e pregare. E i nostri figli “contaminati” ora sanno che i genitori sono al loro fianco, con amore. Tutto questo non può non avere un “regista” lassù. E’ un piccolo miracolo”, afferma Stefania. Il figlio di 22 anni ha 170 di Pfoa nel sangue e problemi al fegato.
Di miracolo parla anche il sindaco di Lonigo, Luca Restello: “Quando ho iniziato a chiedere spiegazioni e segnalare i possibili pericoli per la nostra gente, ero tacciato di allarmismo. Fino a quando non sono arrivate loro”.
Quando le istituzioni latitano, o sono omertose, e si rimpallano le responsabilità della situazione, com’è accaduto anche di recente tra Regione Veneto e Ministero della Salute, o c’è qualcuno tra i cittadini che riempie questi vuoti, attivandosi dal basso, o la situazione precipita. La pensa così Cristina Guarda, giovanissima consigliera regionale del Pd, anch’essa residente dentro la “Zona rossa” che solo per aver chiesto nel 2016 di porre all’ordine del giorno del Consiglio i pericoli sanitari connessi alla contaminazione e le sue proposte per tutelare la cittadinanza venne minacciata dall’assessore regionale all’ambiente di denuncia per procurato allarme. “Se oggi abbiamo l’acqua che esce dai rubinetti a “zero Pfas” e si sta pensando seriamente di procedere alla realizzazione di un altro acquedotto come soluzione definitiva, cioè all’approvvigionamento idrico che peschi in una falda non inquinata, è anche merito del’impegno di queste donne coraggiose”, afferma la consigliera che è anche aderente ai Gen, movimento giovanile dei Focolari. E non usa mezzi termini nel definire la contaminazione come “un attentato al diritto di maternità”, perché la letteratura scientifica attesta che l’esposizione ai pfas può aumentare l’insorgere di patologie, come la preeclampsia, che mettono a rischio la salute di neonati e mamme.
Nel frattempo, l'ultima autorevole conferma della pericolosità dei composti perfluorurati è giunta poche settimane fa al XXXIV “Convegno di Medicina della Riproduzione” svoltosi a Padova: uno studio del gruppo di ricerca del professor Carlo Foresta, docente di endocrinologia nell'ateneo patavino, presentato al simposio, sulle ventenni residenti nell’area rossa ad alto inquinamento Pfas, dimostrano come questi agenti alterino la fertilità della donna, modificandone la funzione dell’utero interagendo col progesterone, e bloccando i meccanismi che regolano il ciclo mestruale, l’annidamento dell’embrione e il decorso della gravidanza.
Le mamme? Hanno alzato l’asticella degli obiettivi: la battaglia, d'ora in poi, dovrà essere per “acqua a zero pfas”, ovunque. A loro, quella avvelenata, non gliela da’ più a bere nessuno.