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«Torniamo a Mare Nostrum, ho benedetto troppe salme»

20/02/2015  La testimonianza di don Paolo Solidoro,ufficiale e sacerdote in forza alla Marina militare e cappellano della missione Mare Nostrum: «So che per gli italiani è difficile comprendere, ma dobbiamo aiutarli: il Mediterraneo è un cimitero a cielo aperto»

La mia vita la passo sulle navi, le mie piccole comunità parrocchiali». Don Paolo Solidoro è un cappellano militare, un prete con le stellette: sta per imbarcarsi sulla fregata Aliseo della Marina militare per una nuova missione che lo porterà a navigare nel Mar Nero. Questo sacerdote salentino originario di Ruffano, in provincia di Lecce, poco più di quarant’anni, dal fisico asciutto, abituato ad allenarsi in palestra con i suoi commilitoni, capitano dei bersaglieri della brigata Garibaldi, ha sempre legato la sua vocazione alla vita militare, anche per via della tradizione familiare (due dei suoi fratelli sono in Marina).

Dal 2010 assolve al suo ministero sulle navi della Marina militare. Ha partecipato alla missione Mare Nostrum, nel Canale di Sicilia, dal mese di marzo del 2013 fino alla sua conclusione. Don Paolo, che chiama i suoi fedeli «i miei ragazzi», da bravo ufficiale, è legato alla diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Ha appena saputo dell’ennesima tragedia dei barconi della morte. Cento, duecento, trecento uomini, donne, vecchi, bambini inghiottiti dal mare. «Quando arrivano notizie così, a bordo, tutto l’equipaggio è pervaso da un’atmosfera di sconforto, di sofferenza, ma anche di impotenza, come dopo una sconfitta. Sui ponti delle navi i miei ragazzi scrutano spesso l’orizzonte del mare con un senso di rabbia, perché vorrebbero essere dappertutto, perché nessuno sa quando questi barconi della morte partono dalle coste. Vorrebbero salvare tutti, i miei ragazzi, ma sanno che non ci riusciranno».

Tra la missione Mare Nostrum, che ha salvato 170 mila naufraghi, e quella attuale coordinata dall’agenzia europea Frontex, denominata Triton, non ha dubbi: «Mare Nostrum dovrebbe essere ripristinata. So che per gli italiani è difficile comprendere: molti pensano che non possiamo portare sulle nostre fragili spalle l’esodo biblico dei profughi africani. Ma dobbiamo lasciarci guidare dalla nostra umanità, come dice il Papa. Mare Nostrum era un’operazione più ampia, più attenta e più vicina alle coste africane, che poteva contare sulle navi anfibie della Marina: la San Marco, la San Giusto e la San Giorgio, dotate di gommoni di nove metri (i cosiddetti “Mazinga”), di droni ed elicotteri in grado di portare a termine nel migliore dei modi le operazioni di soccorso. Io li ho visti quei barconi, imbarcazioni da 50 passeggeri stipati con 450 vite umane a bordo, in balia delle onde. Basta un po’ di moto ondoso, perdono l’equilibrio e si rovesciano, inghiottiti dai flutti. Il Mediterraneo ormai è un cimitero a cielo aperto».

Il ruolo dell’Europa, i soccorsi, i trafficanti di uomini, il controllo di chi sbarca senza nome sulle nostre coste, la protezione dei confini. In Italia il dibattito sembra interminabile. «Impossibile, come sostengono in molti, aiutarli a casa loro», spiega don Paolo. «Lì c’è la guerra, la fame, la dittatura, le torture, l’odio tribale. La spinta ad abbandonare quei luoghi è troppo forte. Una spinta che ti porta ad affrontare la morte. Ne ho benedette tante, troppe, di salme. Uomini, donne, vecchi, bambini. Cadaveri che avevano in tasca ancora il cellulare incellofanato perché non si bagnasse. Una volta uno di quei cellulari cominciò a squillare. Doveva essere la madre che chiedeva notizie del figlio. Non abbiamo avuto il coraggio di rispondere».

Anche don Paolo presta soccorso, accoglie quei naufraghi semiassiderati, le piaghe del corpo bruciate dal sale e dal kerosene, silenziosi, sofferenti. «I sopravvissuti raccontano anche di lunghe marce interminabili. Il viaggio attraverso il deserto spesso dura dai nove ai dodici mesi. C’è chi parte a piedi dalla Nigeria. Si fermano nei vari villaggi per comprarsi qualche cosa. Partono a gruppi di 60, arrivano in venti, gli altri rimangono nei villaggi, o muoiono».

Don Paolo si dice colpito dalla docilità con cui si fanno accompagnare dai soccorritori: «Si mettono seduti e lì rimangono fino all’arrivo. L’essenziale è stare al calduccio, poter dormire sereni dopo giorni di agonia. Tu li vedi dormire di quel sonno sereno, come neonati. Un sonno che in Eritrea e in altri Paesi non esiste. Per gli eritrei dormire è una benedizione. Nella loro terra si svegliano ogni ora per gli spari, le bombe, i pericoli incombenti che potrebbero far sì che uno squadrone della morte ti entri in casa all’improvviso per portarti via. A volte arrivano anche vecchiette di 90 anni e io chiedo loro perché affrontano un viaggio così lungo alla loro età. Loro mi rispondono che desiderano morire in pace. I minori che partono da laggiù non si contano. Domando loro perché lo hanno fatto e loro mi rispondono che vogliono un futuro».

Le ultime parole di don Paolo sono per il personale della Marina: «Stare con loro è un arricchimento. Dal primo degli ufficiali all’ultimo dei marinai, si tratta di persone che fanno tutto con una grande umanità unita alla professionalità. Se fanno tutto questo, è perché lo sentono. Sono militari che si fanno carico della sofferenza di queste persone. Io li vedo gli occhi lucidi. Lo fanno perché sono consapevoli che sono vite, che sono un dono di Dio».

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