Gigliola Cinquetti e papa Francesco, un po’ di obamismo ed echi kennediani, spirito boy-scout («servono sogni e coraggio») e galateo istituzionale “rottamato”. Matteo Renzi debutta così al Senato per chiedere la fiducia per il suo governo. Abito nero, camicia bianca, espressione ridanciana.
Parte morbidamente retorico («Ci avviciniamo a voi in punta di piedi, con il rispetto che si deve a quest’Aula»), poi passa alla Cinquetti: «Non ho l’età per sedere su questi scranni». Infine l’affondo: «Vorrei essere l’ultimo Presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a questa Camera». Il senso del discorso di Renzi sta tutto nella premessa. «Sono consapevole», ha detto, «del rischio di fare questa affermazione di fronte a senatori che non meritano il ruolo di ultimi senatori, ma lo sta chiedendo il Paese, lo sta chiedendo l’Italia. Oggi non immaginiamo di essere gli ultimi perché abbiamo un pregiudizio su di voi, ma perché abbiamo un giudizio sull’Italia».
Come dire: se farete ostruzionismo, andiamo al voto e si vedrà. Postilla: «Noi non abbiamo mica paura delle elezioni». Il Movimento 5 Stelle, punto sul vivo, inizia a mugugnare. Il presidente Grasso richiama tutti all’ordine.
Parla per 68 minuti, il premier («discorso breve, alla Fidel Castro», «quando avrà finito di parlare il governo sarà meno giovane», sono i commenti su Twitter), interamente a braccio, fa battute, mette le mani in tasca, ammicca sornione, si sceglie il M5S come nemico e lo stuzzica per tutto il discorso («Noi svolgiamo una funzione sociale nei confronti dei senatori M5S. Non è facile stare in un partito dove il capo dice “non sono democratico” ma vi vogliamo bene lo stesso») e alla fine snocciola le sue priorità: riduzione del numero dei parlamentari, investimenti sull’edilizia scolastica, sblocco totale dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle aziende, semplificazione del Fisco con la dichiarazione dei redditi online («Pure il Papa ha detto che Internet è un dono di Dio»), riforma organica della giustizia, compromesso sui diritti civili e via libera alla cittadinanza per i bimbi stranieri nati in Italia.
In oltre un’ora di discorso, il Senato applaudirà neanche dieci volte, di cui una, d'obbligo, per ringraziare Enrico Letta. Tiepidi anche i senatori del Pd come pure i colleghi di governo che ascoltano impassibili.
I ministri, donne comprese, vestono tutti in abito scuro dopo l’arcobaleno sgargiante esibito il giorno del giuramento al Quirinale. «Dicevano che qui al Senato non vi divertivate ma vi vedo sereni e vi garantisco che vi divertirete sempre di più…», provoca Renzi quando le opposizioni rumoreggiano. La moglie, Agnese, s’accomoda in tribuna e ascolta silenziosa. Ogni tanto si emoziona.
Renzi annuncia che farà il giro delle scuole d’Italia cominciando da Treviso e che manderà una lettera ai suoi «colleghi sindaci» anche se lui sindaco non lo è più. Annuncia che il primo giorno da premier lo ha passato a telefonare ai marò, a Lucia Annibali, la ragazza sfregiata con l’acido dal suo ex e ad un amico che ha perso il lavoro. Come dire: il Paese reale è fuori da qui. «Se avessimo ascoltato di più i mercati rionali e non quelli finanziari…», chiosa. Se non è una dichiarazione di ostilità alla "casta", poco ci manca. Renzi ribadisce a ogni passaggio – con i gesti, le espressioni, le smorfie – l’idea che “io non sono come voi”. I senatori ascoltano con aria più sorniona che sconcertata.
Finisce con Paola Taverna, senatrice del Movimento 5 Stelle, che difende il protocollo istituzionale: «Non mi sono piaciute le mani in tasca di Renzi», sbotta, «sembrava parlasse ad un gruppo di scolaretti. Enrico Letta, al confronto, era uno statista».