Casomai ce ne fosse ancora bisogno la cronaca s'incarica di ricordarci che Umberto Eco aveva visto giusto quando ha detto che la Rete, tra tanti utenti normali, dà diritto di parola pubblica anche a legioni di imbecilli che un tempo sarebbero stati zittiti al bar. Prova ne è l'idea geniale di chi ha pensato di creare una pagina Facebook - già rimossa - per incitare alla violenza sessuale contro la campionessa paralimpica Bebe Vio.
Il problema è che su Fb l'imbecillità invece di essere zittita ha trovato anche una ventina di "mi piace" e pollici alzati, simbolo del consenso in Rete. Bene ha fatto Bebe Vio a denunciare, facendo sapere: «Bisogna dare una risposta decisa a questi comportamenti quando sono esageratamente violenti». La giusta reazione di un'atleta che rappresenta l'Italia e la Polizia di Stato, anche perché sia chiaro che l'anonimato di un nickname non può essere il paravento dietro cui nascondere comportamenti non solo vigliacchi ma criminali e potenzialmente criminogeni.
Al di là dello squallore che è difficile spiegare anche con la più feroce delle antipatie, ci sono di mezzo reati. Bene ha fatto Bebe a ricordare che la Rete non è zona franca: la minaccia in Rete è violenza tanto quanto nella vita reale e, come tale, va stroncata.