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giovedì 19 settembre 2024
 
Irlanda
 

Belletti e il referendum irlandese: «In Europa spira un vento individualista»

25/05/2015  Francesco Belletti presidente del Forum delle Associazioni familiari commenta l'esito del referendum in Irlanda: «non mi pare essere una conquista progressista, ma piuttosto la vittoria di una cultura che rende la nostra società sempre più individualista....» e indica tre questioni che potrebbero esserci utili per affrontare il dibattito.

L’esito del Referendum irlandese è oggettivamente una notizia importante. La proposta di introdurre nella Costituzione il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stata approvata da oltre il 60% dei votanti. Inoltre ha partecipato al voto il 60% degli elettori: un dato non altissimo, per la media dei votanti irlandesi, ma certamente non marginale. Così, dopo aver introdotto le unioni civili nel 2010, ora il riconoscimento delle unioni civili si traduce, dopo pochi anni, nel riconoscimento del matrimonio, con una modifica costituzionale. E l’interpretazione prevalente è che persino la cattolicissima Irlanda ormai riconosce che il same-sex marriage, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, è da riconoscere dal punto di vista giuridico. Non mancano, in effetti, anche esponenti del mondo cattolico – irlandese e non – che considerano l’esito del referendum un successo.

I commenti si sono moltiplicati, anche nel nostro Paese, anche in considerazione del dibattito parlamentare oggi in corso, sulla regolazione delle unioni civili. Quindi, per alimentare questo dibattito, conviene forse inserire alcune brevi argomentazioni, che magari si pongono al di fuori della prevalente linea di entusiastica celebrazione del referendum irlandese come una vittoria a favore delle sorti progressive dell’umanità. Ci permettiamo qui di dissentire, offrendo qualche spunto di riflessione.

In primo luogo è ingannevole non vedere questo gesto come l’esito di un distanziamento ormai consolidato da una radice identitaria ascrivibile al cattolicesimo. Come per l’Italia, anche per l’Irlanda, è illusorio dire che “è un Paese cattolico”. Tutte le indagini sulla religiosità e sulla fede evidenziano che i “praticanti” sono una minoranza, mentre prevale un pensiero dominante che tenta costantemente di ridurre la fede ad esperienza privata, senza legami con i valori sociali, con le scelte d vita pubblica, con i progetti di bene comune. Non si tratta di difendere o di proporre “leggi cattoliche”: si tratta di interrogarsi, piuttosto, sul modello di persona, di società e di libertà oggi prevalenti. Nel bene e nel male, la presenza cattolica nella società ha promosso un orizzonte di valori e regole sociali rigorosamente “laiche” ispirate alla solidarietà, alla dignità di ogni essere umano, all’inviolabilità di ogni persona, senza se se senza ma, anche se non produce, anche se non sembra avere “pieno potere su di sé”, e su questi valori sono state costruite legislazioni e progetti sociali che, nel dialogo con altre culture politiche e con altre antropologie, hanno contribuito a costruire il modello della società europea.

Oggi invece in Europa spira un vento individualista, che promuove una cultura dei diritti dell’individuo che prevarica su qualunque altro orientamento: ne sono prova la legittimazione dell’eutanasia (potersi dare la morte per generiche “sofferenze psicologiche”, la possibilità della selezione eugenetica (una Danimarca “Down free” tra pochi anni, dove cioè le persone con Sindrome di Down non potranno più nascere, tramite pratiche abortive eugenetiche), ma anche la trasformazione del matrimonio e della famiglia in diritti dell’individuo. Così è oggi forte l’affermazione del diritto dell’adulto al figlio, anziché quella prevalente del diritto del bambino ai propri genitori, o più precisamente, “ad un padre e ad una madre” (questo è più controverso). In questo senso anche la resistenza in Europa verso l’accoglienza ai migranti può essere considerata frutto di questa cultura individualistica, priva di responsabilità solidaristiche.

Ma quale cultura, quindi, ha vinto, in Irlanda? Quella dei diritti per tutti? Quella del rispetto per le persone? In parte sì, in parte no. Certamente è importante che le persone con orientamento omosessuale siano rispettate, non vengano perseguitate, siano cittadini a pieno titolo. Ed è giusto denunciare lo scandalo di alcuni Paesi, dove ancora l’orientamente sessuale è addirittura perseguito per legge (e le persone omosessuali sono incarcerate). Ma questo non riguarda l’identità del matrimonio e della famiglia, istituzione sociale da sempre orientata a valorizzare la differenza sessuale tra maschile e femminile e l’accoglienza e la cura delle nuove generazioni. Quindi, in questa prospettiva, occorre tutelare i diritti delle persone nelle loro relazioni affettive, ma questo non significa costruire un “matrimonio per tutti”. Per questo l’esito del referendum irlandese non mi pare essere una conquista progressista, ma piuttosto la vittoria di una cultura che rende la nostra società sempre più individualista. Anche nella vita privata e nello spazio familiare.

In fondo è una nuova vittoria del paradigma mercantile, che vuole trasformare anche le relazioni familiari in relazioni di consumo, contrattualistiche, dove le persone fanno contratti, non alleanze. Questo sta avvenendo anche in Italia, dove si comincia a parlare di contratti prematrimoniali, dopo aver introdotto il divorzio breve o brevissimo. Anche questa scelta salutata come grande conquista di civiltà da quasi tutti i media, con pochi cauti osservatori (non solo cattolici) che hanno segnalato che un divorzio “modello Las Vegas”, immediato, è solo un ulteriore segnale di abbandono delle famiglie, che rischia di penalizzare la “parte debole” nella coppia in separazione. La libertà delle persone diventa quindi, anche nella regolazione giuridica, una libertà mercantile, anziché un progetto di vita che si fa legame solidaristico. In effetti, nel nostro Paese, in particolare, la famiglia continua a generare solidarietà, ma le nuove regole sembrano costantemente interessate a smantellarla.

Sorprende, in questo senso, che questo valore di esasperato individualismo sia diventato una bandiera della sinistra estrema, di chi dovrebbe avere una prospettiva solidaristica societaria nel proprio Dna. Purtroppo pochi nel nostro Paese, tra chi si proclama di sinistra, hanno avuto lo stesso coraggio che hanno invece manifestato i laicissimi francesi, quando hanno denunciato la pratica dell’utero in affitto come un’ennesima violenza sul corpo delle donne povere, asservite ad un desiderio di genitorialità che diventa assolutizzato. E anche tanto femminismo non sa nemmeno più scegliere, tra una donna ridotta ad incubatrice e una coppia che “pretende un figlio ad ogni costo”. Temi drammatici, dove sono in gioco sofferenze grandi da parte di tutti gli attori. Ma come non vedere lo sfruttamento del corpo e dell’anima di alcuni ricchi su altri poveri?

Eppure è molto istruttiva la natura “commerciale” della vertenza LGBT, soprattutto negli Stati Uniti. Come dice il sito www.queerblog.it, hanno scritto alla Corte Suprema statunitense 397 aziende, “realtà del calibro di Coca-Cola, Levi’s, Nike, Proctor & Gamble, United Airlines e molti altri ancora: tutti si sono detti sicuri che il matrimonio gay sia necessario non solo per una questione di principio ma anche per motivi economici”. Si tratta di una “segnalazione” alla Corte Suprema, che dice che, oltre alla questione dei diritti, c’è in gioco un forte interesse economico. Non si riesce a far business bene, negli Stati dove il matrimonio gay non è riconosciuto, quindi la Corte Suprema deve sbloccare la situazione. Del resto pochi giorni fa lo stesso Corriere della Sera ha dedicato un doppio paginone al valore economico del “turismo LGBT”. Una logica mercantile evidente, con l’entrata in campo di interessi economici potentissimi, che in tempi di globalizzazione, per quanto progressisti, difficilmente possono essere considerati “amici dei senza potere”. Quando si parla di questo tema, quindi, “business is business” diventa a una formula altrettanto efficace della più famosa “love is love”, del Presidente Obama. Entrambe vuote tautologie, ma ottimi slogan per “vendere un prodotto”. In questo caso, il prodotto è l’annullamento della famiglia come “luogo di resistenza dell’umano”, e la trasformazione anche delle relazioni familiari in bene di consumo. Non credo proprio che questo sia un valore “di progresso”!

E che sia una questione di marketing lo conferma anche la spregiudicatezza con cui si utilizzano i numeri, i dati, a dimostrare quanto diffusa sia un determinato fenomeno. Quando si tratta di rivendicare diritti, i numeri sono esagerati: girano stime (che diventano verità, a forza di dirli) di percentuale di persone omosessuali tra il 5 e il 10% sul totale della popolazione, oppure – altro numero mitico – la stima di 100.000 figli che hanno genitori omosessuali. Quando però si è trattato di pensare a quanto costerebbe la reversibilità se si estendesse alle coppie gay, sono venute fuori stime limitatissime, con poche centinaia di casi, che quindi “costerebbero pochissimo”. I numeri usati come armi, per convincere o tranquillizzare, a corrente alternata, ma certo non per aiutare la libertà di valutazione delle persone.

Per tornare al punto di partenza, il referendum irlandese, almeno esso ha consentito a noi italiani di capire almeno tre questioni, che potrebbero esserci utili nel dibattito politico e sociale dei prossimi mesi:

La prima è che in primo luogo occorre grande chiarezza nel costruire regole sulle unioni civili, perché poi il passo è breve: diventano subito matrimonio. Rischia di essere “pubblicità ingannevole” chi dice che le unioni civili consentono di distinguere. Un conto è difendere i diritti delle persone nelle “libere unioni”, un conto è costruire un “simil-matrimonio”, che rapidamente diventerà totalmente parificato. Le nuove regole da definire dovranno considerare questo orizzonte.

La seconda questione è il tema della genitorialità e dell’educazione: la differenza sessuale, “un papà e una mamma” restano indispensabili per un equilibrato sviluppo educativo. C’è invece chi sostiene che “la differenza sessuale non fa differenza”, e che due papà, o due mamme, o una padre e una madre, siano la stessa cosa. Basta la cura. Su questo occorre chiarezza. Davvero è realistico pensare che per un bambino non faccia differenza, il diritto di potersi riferire alla differenza sessuale dei propri genitori? Non facciamo regole ingannevoli, su questa cruciale questione. Così come non possiamo contrabbandare la doverosa lotta a ogni forma di emarginazione e di violenza contro le persone omosessuali con l’indottrinamento ideologico sulla destrutturazione dell’identità sessuale, troppo spesso somministrato, a partire dalla più tenera età, con percorsi nelle scuole che pretendono di legittimare la totale indifferenza sessuale, senza nemmeno coinvolgere i genitori nella condivisione dei valori, su un tema così delicato. La titolarità educativa dei genitori è una grande valore di democrazia e di libertà, e nessuno può permettersi di prevaricarla – tantomeno un nuovo potere politico, che pretenda di educare i bambini fin da pubblico ad orizzonti etici pubblici. Proprio la cultura politica ispirata dalla Dottrina sociale della Chiesa, su questo punto non potrà mai accettare uno Stato etico, che espropri i genitori del diritto-dovere dell’educazione.

Terza, e ultima, ma non meno importante: non sempre quello che viene sbandierato come progresso è davvero al servizio della dignità della persona o di una società più giusta, più equa, più solidale, soprattutto quando si affrontano temi così vicini al cuore della persona, come la famiglia, l’educazione, l’identità sessuale. Occorre però una grande libertà di pensiero e di parola, per riuscire a sviluppare un libero dibattito senza pregiudizi su questioni così delicate. E’ possibile questo, oggi, su questo tema, nel nostro Paese?

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