È stato in silenzio per più di cinque anni, Edoardo Bennato, e adesso torna con questo album che definire “dirompente” è riduttivo. Si intitola Le vie del rock sono infinite ed è un manifesto della sua coerenza.
– Edoardo, anni fa mi avevi detto: «Il rock deve creare tensioni, dubbi, interrogativi e trasmettere buone vibrazioni ». Mi pare che, dopo 40 anni di carriera, non hai cambiato opinione...
«Il rock, che rappresenta una certa cultura americana, diventa utilissimo quando puoi accompagnarlo con testi italiani che, senza snaturarlo, ti consentano di raccontare la realtà del tuo Paese. E questo ho tentato di fare. Il silenzio che mi ha tenuto lontano dalla gente per cinque anni l’hanno causato le case discografiche, la totale assenza di decisionismo, l’abolizione di certi schemi che portavano alla musica infiniti stimoli. Oggi c’è l’usa e getta. Buttano sul mercato un artista – loro si ostinano a chiamarlo “prodotto” – e se funziona va bene, se no scatta, implacabile, la rottamazione, ma senza nemmeno gli incentivi. Le 13 canzoni di questo album sono il frutto di una ricerca chemi ha portato a produrre una quarantina di nuovi pezzi per scegliere quelli da pubblicare».
– Però con questo disco ti sei sfogato: sei passato dal raccontare “l’isola che non c’è” a tracciare un ritratto disincantato, sulfureo, della “penisola che c’è”, quell’Italia che tu racconti con crudele ironia e lucido realismo...
«Magari qualcuno dirà che ho esagerato, ma io vorrei essere come Benigni e la Littizzetto, che possono permettersi, con la satira, di descrivere, quel che succede. Sono come i buffoni di corte di un tempo che divertivano il re e i cortigiani dileggiandoli senza correre rischi. Oggi il caos è totale, davvero non si capisce chi fa cosa. Mi sento frastornato, deluso, confuso...».
– Di’ la verità, questo è probabilmente il disco più autobiografico della tua carriera, persino da quando, mimetizzato con il nome di Joe Sarnataro, proponevi un rock e un blues napoletani con i tuoi compagni, tutti partenopei, che si chiamavano “Blue Stuff”. Insomma, quel protagonista di Vita da pirata sei proprio tu...
«E chi se no, i pirati non hanno allea- cercano di risolvere a loro modo i problemi che, poi, sono quelli di tutti: sempre in cerca di avventure, notti e giorni a navigare, è una febbre che non passa mai. Ma che inevitabilmente, dopo aver percorso i sette mari, ti riporta al mare malato di Bagnoli, sporcato dall’Italsider, che sin da quando eri piccolo ti faceva respirare un’aria tossica. Nonostante questo tu torni sempre a casa, e sei l’unico interprete napoletano che non ha abbandonato la sua città». E continua: «A Napoli sono nato. È il luogo dove ho ricevuto una straordinaria educazione dalla mia famiglia, dove mia madre ha voluto che io e i miei fratelli Eugenio e Giorgio andassimo a lezione di fisarmonica, e ti garantisco che era un lusso. Qui ci sono i miei nonni, le mie radici, i miei morti, il mio futuro, c’è Gaia, la mia bambina di cinque anni. Noi siamo cresciuti sani perché sin da piccoli la famiglia ci stava vicina, e l’ha fatto sin dalle prime ore di vita, che sono quelle più importanti. Il seme dà buoni frutti se è annaffiato con amore».
– Gaia c’è nel disco?
«Ha ispirato quella che a mio parere è la canzone “speciale”. Si intitola È lei e apre uno spiraglio di ottimismo sulla vita. “È lei che proprio in questo istante sta nascendo nell’angolo più povero del mondo, che forse questo mondo cambierà. È lei, perché la povertà le dà un vantaggio, le dà più leggerezza e più coraggio e con questo vantaggio lotterà, contro guerre senza ragione, contro guerre senza pietà, contro guerre di chi le vuole, contro guerre di chi le fa. C’è un vagito lontano, forse il peggio è passato e un futuro diverso forse è già cominciato”. Insomma, il miracolo di un bambino, che è Gesù o un bambino qualunque, trasmette speranza alle persone di buona volontà».
Poi Edoardo si scatena: la globalizzazione? Ecco Io Tarzan e tu Jane, un pastello di vita scomoda ma pulita nella giungla, dove “via dalla folla e dalla follia accetti la legge della giungla, che dice o tu mangi qualcuno o qualcuno mangia te. E poi quella legge che condanna o perdona senza apparente logica chi viola la legge. Quelli che in nome della sacrosanta teoria di giudicare tutti con la stessa misura vogliono che tutte le canaglie vadano in galera, oppure nessuna”. È il tema provocatorio di una specie di gospel che si intitola Wannamarkilibera. Un tema di attualità, visto che si condanna un contadino perché mostra la lingua a un vicino mentre in galera non ci va chi deruba lo Stato, e quindi tutti noi.
Poi Edoardo affronta il tema dell’Unità d’Italia e lo fa raccontando la storia di un re con manie di grandezza, Vittorio Emanuele che a Teano ricevette da Garibaldi un’Italia unita, ma era soltanto un’invenzione e così «cominciò la tiritera tra i briganti e i Savoia. Metternich l’aveva detto, ma pensarono a un dispetto che tra Vigevano e Cosenza c’era troppa differenza e tra le Alpi e le Madonie non c’era niente da spartire». «La verità», è la tesi di Bennato, è che «ci accingiamo a festeggiare i 150 anni di un’Unità in un caos totale e ormai è evidente che chi si ostina a tentare di governare questo caos, applicando le regole di un patriottismo che forse non si trova più nemmeno nei libri di storia, rischia di farsi e di farci male!».
– Un mondo solo in nero, dunque?
«Coraggio, aspettiamo. Per la prima volta in vita mia sono stato a Sanremo come ospite, perché volevo cantare la canzone che costò la vita a Luigi Tenco. Bene, anche lì c’era un principe, però non è stato lui il peggiore dei mali. Sanremo, come l’Italia, è in mano a impresari che fanno soltanto il proprio interesse. Le canzoni e la gente? Un dettaglio. Proprio come nella vita di tutti i giorni». Si intitola Le vie del rock sono infinite ed è un ritratto impietoso del nostro Paese. Tra la rabbia e la speranza.