Per il mondo, il 5 maggio è l'anniversario della morte di Napoleone (quest’anno sono duecento anni esatti). Per noi interisti è l'anniversario della “grande delusione”. Il 5 maggio 2002 eravamo a un passo dallo scudetto dopo tredici anni di digiuno. In panchina c'era un coriaceo allenatore argentino, Hector Cuper, che aveva l'usanza di battere una mano sul cuore ai suoi giocatori prima di entrare in campo. All'Olimpico contro la Lazio doveva essere una formalità. Finì con Ronaldo in lacrime, Cuper che sembrava una statua di sale, noi interisti disperati e senza neanche la forza di prendercela con Vratislav Gresko, un terzino slovacco che chissà che fine ha fatto, che con un clamoroso errore fece segnare Poborsky. La Juve era dietro di un punto, la Roma di due. Vinsero entrambe e noi, dal tricolore quasi cucito sul petto, finimmo terzi. Probabilmente tra i greci che coniarono il termine catastrofe – da katà, giù e stréphein, voltare, quindi “rovesciare, rivoltare, capovolgere” – c'erano molti interisti ante litteram.
Il successo mancato del 2002, con Ronaldo e Bobo Vieri, per noi adolescenti doveva essere la conferma che non c'eravamo sbagliati ad aver scelto questi colori meravigliosi quando eravamo ancora bambini. Perché si sa, a quell'età non dai molto peso alle sciagure del mondo (interista), non pensi che c'è sempre un Gresko, anche nella vita, a sbarrarti la strada sul più bello, che la probabilità dello 0,00001 per cento che accada l'imponderabile si verifichi e si verifichi esattamente ai tuoi danni come successe in quel tremendo pomeriggio di primavera di diciotto anni fa.
Non immagini che tifare Inter sia un corso di gestione dell'ansia, una preparazione a schivare i colpi dell'imponderabile e del capriccio che ci governano, che Vampeta e Recoba che sbaglia il rigore decisivo per andare in Champions League non esistono, sono solo personaggi delle fiabe horror che ci raccontavano da piccoli per costringerci a mangiare la frutta o a dormire senza fare troppi capricci.
Passarono un po' di anni, neanche tanti per i tempi biblici dell’albo d'oro nerazzurro, in mezzo il terremoto di Calciopoli e la Juve in B (quale maggior soddisfazione?) e poi ecco l'inizio del ciclo con cinque scudetti consecutivi e qualche coppa. Fino all'estate del 2008 quando sulla panchina nerazzurra si materializza lui: José Mourinho da Setùbal. L’italiano claudicante (ma già affilatissimo nel coniare battute) e un soprannome ingombrante, "The Special One", che si porta dietro dai tempi del Chelsea quando pronti via si presentò e disse: «Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d'Europa e credo di essere speciale. Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto: una bella sedia blu, una Champions League, Dio, e dopo Dio, io».
Ora Mourinho, anzi Mou, torna in Italia, nel nostro campionato, per allenare la Roma la prossima stagione. La notizia è arrivata mentre eravamo ancora in festa per il diciannovesimo scudetto conquistato domenica scorsa e, ironia del caso, alla vigilia del 5 maggio, anniversario che quest'anno fa molto meno male.
Per un interista il ritorno di Mou, sia pure da avversario, è, dal punto di vista sentimentale, un evento ambivalente: il ritorno dell'adolescenza, dei sogni realizzati, dell'eroe eternamente giovane, senza macchia e senza paura, che lotta contro il male e vince. È il mister che abbiamo amato in maniera smisurata, appassionata, quasi feroce. Perché non solo ci ha fatto vincere ma anche divertire, infiammandoci con quelle sue battute che facevano imbestialire gli avversari, con quei suoi improbabili appelli all'onestà intellettuale davanti ai cronisti, con quei suoi gesti eclatanti a bordo campo. Un po’ guru e un po’ predicatore. Magnetico, trascinatore, abilissimo a infilarsi in un calcio tutto parole, nevrosi e isterismi di cui l'Inter rappresentava, e rappresenta tuttora, la piazza migliore che esista sul pianeta terra.
Anche i sogni però, come l'adolescenza, finiscono all'alba, anche la parentesi della gioia è destinata a chiudersi e a lasciare, sul campo, il nero sudicio della vita di ogni giorno: i Benitez e gli Stramaccioni, i De Boer e i Pioli. La girandola di allenatori e di dirigenti, gli acquisti sbagliati, le proteste contro gli errori arbitrali, le stagioni finite prima ancora di cominciare.
Per noi interisti però (siamo complicati, lo so), il ritorno alla realtà non è stato l'addio di colui che ci aveva condotto al trionfo la sera dolce di Madrid del 22 maggio 2010 quando il capitano Javier Zanetti, e noi con lui, piangeva lacrime di felicità e Massimo Moratti diceva di aver rivisto l'anima di suo padre e intanto Mourinho, in lacrime pure lui, non saliva nemmeno sull'aereo per tornare a Milano e festeggiare con i tifosi perché aveva in tasca il contratto per allenare il Real Madrid che si rivelerà una mezza delusione.
Gli perdonammo anche quello sì, perché si perdona molto a chi molto si ama. L'eroe poteva uscire di scena anche così, anzi c'era persino più gusto, anche se sapevamo che si apriva una traversata nel deserto, come poi è puntualmente accaduto. Trionfo e via. E che trionfo: prima (e unica) squadra italiana a conquistare il Triplete: scudetto, Coppa Italia e Champions League, che mancava da quarantancinque anni, tutto insieme in una sola, indimenticabile stagione.
Per noi interisti il ritorno alla realtà è arrivato adesso che Mourinho torna in Italia, alla Roma, dopo una serie di disavventure, scarsi risultati, esoneri (l'ultimo qualche giorno fa al Tottenham) e pochi “tituli”. È un ritorno alla realtà perché abbiamo compreso – come quei bambini ai quali hanno appena comunicato che Babbo Natale non esiste – che anche la caducità umana appartiene all'eroe e che l'eroe può tornare sì, ma quando torna è sempre ammaccato e meno trionfatore, anche se pur sempre eroe.
Mourinho sulla panchina giallorossa, undici anni dopo il Triplete con l'Inter e quell'addio da sceneggiatura hollywoodiana, è lo spettro del tempo che passa, della vita che scorre, della giovinezza che siamo costretti a salutare. L'eroe che credevamo invincibile e immortale è tornato uno di noi. Sfidarlo sul campo, da avversario, sarà un tuffo al cuore. Sarà come risvegliarci definitivamente dal sogno e dire che, paradossalmente, nonostante sia tornato il gran protagonista, gli anni dieci, i nostri anni, adesso sono davvero finiti.
Non l'amore per l'Inter e quel vizio, al limite del sadismo, di trasmettere la nostra assurda passione ai più piccoli. Io lo sto facendo con mia nipote Alice, quattordici mesi, che domenica scorsa ha festeggiato il suo primo scudetto, ha già imparato a dire “Forza Inter” e mi imita in maniera buffa quando mi dispero per un gol sbagliato (pochi, per fortuna) di Lukaku. Quanto è agrodolce tifare per questi colori, lo imparerà presto. Nel frattempo, festeggiamo felici. Lo scudetto e il ritorno di Mou.