Dal mare sono venuti quei due
gioielli d’arte portati nell’antichità
da altri migranti, i greci. E quelle due
statue di bronzo hanno trasformato un
paesino semisconosciuto della Locride
nella Riace conosciuta in tutto il mondo.
«Sempre dal mare sbarcarono sulla
nostra spiaggia, nel 1998, trecento kurdi
arrivati fin qui a bordo di un veliero
sgangherato, e ancora oggi dal mare arrivano
altri stranieri in cerca d’un posto
in cui vivere senza timore d’essere uccisi.
L’accoglienza è nel nostro Dna. È la
loro ma anche la nostra speranza e la
nostra ricchezza. Non è forse un segno
che il nostro paese abbandonato dagli
emigranti calabresi ricominci a vivere
grazie ad altri emigranti?»
Domenico Lucano, detto Mimmo,
riassume così il suo progetto amministrativo, la sua “filosofia” di sindaco di
Riace. Una filosofia che sta facendo rinascere
un borgo in agonia.
Ad ascoltarlo sorridente c’è il piccolo
Ramadullà, nove anni, figlio di un ingegnere
afghano. Col fratello Imran, è fuggito
dal suo Paese assieme con due zii e
tre cuginetti, dopo che i talebani avevano
fatto esplodere la sua casa, e dopo
un’odissea attraverso Iran, Turchia e
Bulgaria, stivato nei vani bui dei Tir,
senza cibo né aria. Sono tutti arrivati
qui nel settembre scorso. Ora sono ospitati
in una delle tante case svuotate dall’emigrazione,
nell’antico borgo di Riace.
Con loro è giunta un’altra sessantina
di rifugiati afghani, ghanesi, somali,
eritrei, iracheni, serbi e libanesi.
Era l’estate scorsa ed era appena scoppiata
la polemica innescata dal sindaco
di Lampedusa che minacciava denunce
qualora nello “straripante” centro d’accoglienza
locale fossero stati ricoverati
altri naufraghi. E il sindaco di Riace, assieme
con quelli dei Comuni calabri limitrofi
di Caulonia e Stignano offrirono
la disponibilità ad accoglierne subito
170. Un gesto che colpì l’Italia. «170 richiedenti
asilo, a fronte dei 15 del Comune
di Milano», osserva Lucano.
Ma da anni a Riace, “paese dell’accoglienza”,
come sta scritto nel cartello alle
porte del borgo, e una delle cento amministrazioni
aderenti alla Rete dei Comuni
solidali (Resecol), i migranti sono
di casa. Dal 2001, grazie ai progetti dello
Sprar (il Sistema di protezione per i richiedenti
asilo e i rifugiati) finanziati
dal ministero dell’Interno, il Comune,
tramite l’associazione “Città futura G.
Puglisi”, ha avviato un processo di rivitalizzazione
dell’antico borgo attraverso
l’integrazione degli immigrati. E l’accoglienza
si è trasformata in risorsa economica.
Insieme con il contemporaneo recupero
di 25 case abbandonate e la creazione
di 130 posti letto per l’accoglienza
di turisti (“albergo diffuso”), le vecchie
botteghe artigianali hanno riaperto
i battenti. Al telaio manuale per la lavorazione
della fibra di ginestra, antichissima
tradizione locale andata in disuso,
ora si alternano mani di donne riacesi
e africane. Caterina Mussuruca insegna
da tre anni il “punto antico” a Salam,
venticinquenne eritrea, nel laboratorio
di filatura. Maria Irene, altra giovane
riacese, insegna la tecnica del vetro
soffiato a Ragdha, una ragazza irachena.
Nel laboratorio della ceramica,
ricavato da un locale dismesso della
chiesa, lavora con un contratto a progetto
Issa Ghulami, 37 anni, afghano, perseguitato
in patria e residente in Riace
dal 2002. David, altro giovane afghano,
da aprile verrà assunto per operare la
raccolta differenziata dei rifiuti che si farà
usando gli asini.
Tra i nove operatori a contratto c’è anche
Cosimina Ierinò, che può finalmente
valorizzare il suo diploma di
maestra tenendo corsi di alfabetizzazione
agli stranieri adulti al mattino e ai loro
figli al pomeriggio presso il palazzo
Pinnarò, sede di “Città futura”. «Se in
paese è ancora aperta la scuola è grazie
a questi 13 bambini stranieri che s’aggiungono
agli altri otto e mantengono
viva una classe, altrimenti Riace avrebbe
già perso le elementari da tempo», osserva.
Lemlem Tesfahum, venticinquenne
etiope, giunta in Sicilia nel
2004 dall’Etiopia con i suoi due bambini,
dopo un drammatico viaggio attraverso
il deserto libico. Vive con un contratto
per fare l’interprete.
«Così un borgo di neanche settecento
anime, in via d’abbandono, sta risorgendo,
con la presenza di un centinaio
di stranieri, dimostrando, tra l’altro, che
un certo tipo d’accoglienza fa anche risparmiare:
un immigrato in un Cpt costa
allo Stato 70 euro, mentre una giornata
di un rifugiato inserito in un programma
di protezione, come sono quasi
tutti i nostri ospiti, ne costa 21», osserva
Caterina Saraca, giovane riacese a capo
dei progetti per l’associazione.
Il 15 marzo scorso due colpi di pistola
sono stati sparati contro la porta della “Taverna Donna Rosa”, il locale di ritrovo e delle feste della comunità multietnica, fatto restaurare dal sindaco, e altri colpi al portone di palazzo Pinnarò. Un’intimidazione a pochi mesi dal voto per il rinnovo dell’amministrazione comunale. Un messaggio della ’ndrangheta, a cui non piace il modello di integrazione e il recupero del borgo antico voluto da Lucano? Assai probabile.
Ma lui tira dritto per la sua strada. Tanto più che adesso l’esperienza di Riace, Caulonia e Stignano è diventata un modello da esportare. La Regione Calabria, infatti, prima in Italia, si è dotata
di uno strumento legislativo che promuove l’inserimento dei rifugiati nella prospettiva indicata dai tre Comuni della Locride. Alle amministrazioni interessate saranno garantiti finanziamenti per politiche d’accoglienza che diventeranno volano per lo sviluppo economico delle loro comunità.