L'autore Fabio Colagrande
Papa Francesco dice che l'umorismo è una medicina. E allora cominciate a curarvi con questo libretto che si "assume" in pochissimo tempo, senza leggere le avvertenze e inventandovi le modalità d'uso. Sono brevi storie inventate, ma sembrano più vere del vero. Con “Ricordati di sanificare le feste. Fantacronache di rinnovamento pastorale post-pandemia” (Àncora Editrice), il giornalista della Radio Vaticana Fabio Colagrande ci trasporta, sulle ali sottili dell’ironia, in un mondo spassoso, che fa ridere di gusto, ma che fa anche molto riflettere. Ce n’è un po’ per tutti: dai fan del Papa, più bergogliani di Bergoglio, ai nostalgici del concilio di Trento; dagli entusiasti delle omelie su YouTube a chi il web vorrebbe metterlo all’indice; dai fautori di una pastorale dei «ggiovani» a chi i «ggiovani» proprio non li sopporta. Soprattutto l’autore prende di mira, seppur con bonomia, certa comunicazione ecclesiastica, fatta di tic lessicali e avvitamenti retorici: il cosiddetto “ecclesialese”. Introdotto da una prefazione di padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, il volume ci regala bozzetti e ritratti di preti, suore e laici “impegnati”, usciti da una penna acuta e spesso tagliente, che però mai cede all’acidità o al sarcasmo nocivo. È invece la leggerezza il tratto dominante, accompagnata da buone dosi di autoironia.
Partiamo dai nomi dei protagonisti: monsignor Egidio Pancetta, don Augusto Zampone e suor Anna Cotechini, il professor Adolfo Speck, la biblista Agata Fesa, il diacono Giorgio Coppa… Che cosa sta cercando di dirci? Che, chi più chi meno, siamo tutti dei “salami”? O, come suggerisce padre Spadaro nella prefazione, che la comunicazione ecclesiale è “insaccata”?
«In realtà non c’è una precisa ragione contenutistica. Il gioco era nato nella rubrica umoristica Fantaecclesia, che curo all’interno del blog Vinonuovo.it. Da lì, in effetti, provengono un paio di capitoli di questo volume. L’idea era di inventare diocesi immaginarie, legate a nomi di fiori, oggetti o cibi, e poi di popolarle con abitanti dai nomi “coerenti”. Così, alla diocesi di Salsiccia (dove si svolgono le vicende del libro) ecco corrispondere i personaggi “insaccati”. Più che altro è un invito al sorriso, a giocare con le parole, è un modo per collocare le storie in un quadro giocoso e infantile».
Al capitolo 1 ecco un chiaro esempio di “ecclesialese”: «Mettersi in ascolto dei segni dei tempi per intraprendere un cammino preparatorio che partisse dalle realtà comunitarie locali per avviare un percorso di discernimento in vista dell’inaugurazione di un itinerario sinodale di riflessione per fare rotta verso quel rinnovamento ecclesiale suscitato dal momento di prova e di grazia della pandemia». Ma dietro a questo diluvio di parole si nasconde qualcosa o c’è il vuoto?
«Mi sta molto a cuore sottolineare la vacuità di certo linguaggio. A volte si continuano a ripetere, stancamente, formule, che però ormai sono vuote. Sono come slogan, privi di veri contenuti. Questo vale per i religiosi, ma anche per i laici e per noi giornalisti cattolici. In parte credo sia indice di una fede un po’ confusa, in parte vi vedo un atteggiamento sottilmente ingannatorio, un modo per mantenere uno status quo – noi in alto, voi in basso – e per non doversi mettere in gioco davvero».
E dire che, invece, papa Francesco è sempre molto diretto. Abbiamo un Pontefice che parla “pane al pane” e una Chiesa che spesso si impantana nella lingua della burocrazia. Come se lo spiega?
«Non solo Francesco. Anche Benedetto XVI comunicava in modo chiaro e franco. Aveva un linguaggio sicuramente più accademico, ma pregno. Certo, papa Francesco ha portato una grande ventata di novità. Da pontefice, parla come un parroco, ci invita a essere sempre diretti. E ha uno stile molto personale. Ma prima che questo stile diventi quello delle istituzioni ecclesiastiche ci vorrà ancora molto tempo. Ovviamente non tutta la Chiesa usa il burocratese e l’ecclesialese: ci sono tanti religiosi che comunicano in modo efficace. In generale, credo che forma e contenuto non si possano scindere, ma siano un tutt’uno. Chi vive una spiritualità profonda, di solito la comunica in modo altrettanto intenso. Rifugiarsi negli stratagemmi linguistici mi sembra, invece, il sintomo di una spiritualità che si è un po’ persa».
Leggendo il libro si ride molto, ma a volte è un riso un po’ amaro. Resta impressa, ad esempio, la figura di don Gino, un prete così pieno di impegni (riunioni, convegni, seminari in presenza e in rete) da non trovare dieci minuti per ricevere un papà disoccupato, che chiede aiuto. C’è questo rischio anche nelle nostre comunità?
«Conosco tanti parroci che, al contrario di don Gino, tengono il portone sempre aperto e sono pronti, in qualsiasi momento, ad aiutare chi ha bisogno. E conosco tante comunità accoglienti. Credo, però, che la tentazione dell’autoreferenzialità, del chiudersi in un gruppo chiuso, in una bolla, sia sempre in agguato. Per questo ho voluto sottolineare l’esigenza di incontri veri, senza formalismi».
La copertina del libro di Fabio Colagrande.
In uno tra i passaggi più divertenti del libro, lei immagina una serie di commenti social a un’omelia video pubblicata su YouTube da un sacerdote. Ne viene fuori una babele digitale in cui tutti parlano (quasi sempre a sproposito) e nessuno ascolta. C’è perfino @Asdrubale1997 che cerca di vendere il suo scooter «revisionato, ma non assicurato. No perditempo». Per lei il web è più opportunità pastorale o più fiera delle vanità?
«Penso che i canali social siano uno spazio di evangelizzazione importantissimo e cruciale. Fa bene il Papa a dire che “internet è un dono di Dio”. Credo però, anche, che come cittadini e come credenti dobbiamo imparare ad autodisciplinarci. Servono consapevolezza e sobrietà, nell’uso del mezzo e delle parole, perché altrimenti i social diventano luoghi di distrazione e sfogo delle nostre nevrosi. A volte anche alcuni religiosi cascano nel tranello. Educarsi alla cura delle parole è una disciplina faticosa, però ne vale la pena».
Il titolo “Ricordati di sanificare le feste” è un evidente riferimento al tempo pandemico. Dopo mesi di messe in streaming e poi di gel igienizzante, posti distanziati e mascherine, abbiamo imparato qualcosa?
«Questo tempo ha messo a nudo molti limiti della nostra vita ecclesiale, però ci ha anche mostrato delle vie di rinnovamento. Se è vero che tutto è grazia, anche un evento così drammatico costituisce un’occasione imperdibile per ripartire, per migliorarci, proprio perché ci ha dato la consapevolezza dei nostri limiti. Ci ha costretti a farci domande sul modo in cui viviamo la fede, cominciando dalla dimensione individuale. E forse ci ha stimolati a una vita comunitaria più attenta nel coinvolgere tutti».
Lei è giornalista di Radio Vaticana, ma ha anche una grande passione per il teatro e per la comicità, cosa che nel 1996 l’ha portata a calcare il palco dello Zelig di Milano, un tempio del cabaret. Come tiene insieme questi aspetti della sua vita?
«Per molto tempo sono stati aspetti separati, che non si incontravano, un po’ alla dottor Jekyll e mister Hyde (sorride). In realtà c’è una radice comune, perché ho imparato ad amare il teatro comico in parrocchia, da adolescente. Poi, col tempo, mi sono appassionato ai giochi di parole e ai grandi umoristi del Novecento, da Achille Campanile a Marcello Marchesi. La saldatura con il mio lavoro è arrivata durante un convegno, quando ho presentato una relazione sull’umorismo nella comunicazione cattolica. Così ho iniziato a lavorare su una chiave di lettura che trovo interessante, anche perché di un po’ di leggerezza c’è sempre bisogno. Umorismo è guardare con distacco alle cose materiali, sapendo che dietro il visibile c’è qualcos’altro. Questo ci insegna a non prenderci troppo sul serio. L’importante è non confondere l’umorismo con il sarcasmo o con l’invettiva. Dobbiamo sempre abbracciare l’umanità. E ricordarci che il modo migliore di esercitare l’umorismo è ridere di noi stessi».
(La vignetta in copertina di CHIOSTRI è tratta dal volume "Ricordati di sanificare le feste, Ancora edizioni, per gentile concessione dell'editore).