«Quando l’ho visto dopo l’operazione, a luglio, stava bene ma era ancora un po’ dolorante, e mi ha detto: “Non farmi ridere che mi fanno male i punti!”». Padre José Luis Narvaja, gesuita, ha la stessa schietta cordialità dello zio, papa Francesco. Il 17 dicembre Jorge Mario Bergoglio compie 85 anni, e il figlio di una delle sue sorelle, che si divide tra Roma e Cordoba, racconta: «Lo vedo molto bene, con tanta forza, veramente non sembra che abbia io prendessi i colpevoli e li impiccassi, ma non si fa così. La pazienza di Dio è enorme, lui non vuole la morte del peccatore ma che si converta, e ci dà del tempo. Poi certo i colpevoli devono rispondere di quello che hanno fatto, questo fa parte della libertà dell’uomo, e il processo deve andare avanti per guarire le ferite e tutelare i piccoli».
Questo processo per fare spazio a Dio ora fa «un passo in più» con il Sinodo, spiega il nipote di Bergoglio: «Attenzione, la sinodalità non è democrazia. A volte il nostro dialogo può essere un confronto, anche un contrasto, ma senza amore non è un dialogo nello Spirito. Il Papa ha avviato questo processo, forse non vedrà lui l’esito, lui è lo strumento dello Spirito. E lo Spirito sta lavorando nella Chiesa: tutti abbiamo lo Spirito perché lo abbiamo ricevuto nel Battesimo». Al centro del sinodo, e più in generale della pastorale di Bergoglio, c’è il «popolo di Dio». In un articolo su La Civiltà Cattolica padre Narvaja ha rivelato che suo zio ha elaborato la sua visione a partire da Fëdor Dostoevskij. Il popolo, nella concezione del grande scrittore russo analizzata da Romano Guardini, è una categoria «mitica»: «Non è un’astrazione, è l’insieme della gente normale, la “santità della porta accanto”».
Se il magistero è infallibile docendo, nell’insegnamento, diceva già il concilio Vaticano II, il popolo è infallibile nel credere. Popolo di Dio, che è cosa ben diversa dal popolo a cui fanno riferimento i populisti: «Il populismo tende a strumentalizzare il popolo», spiega il sacerdote, «mentre il popolo di Dio è uno: non è un gruppo che si oppone a un altro gruppo contro il quale deve lottare». Padre José Luis Narvaja sottolinea che da questa concezione derivano conseguenze molto concrete: «Il popolo ha un rapporto particolare con la natura, e il rischio della società moderna è che si allontani dalla natura, e perda così di vista anche il Dio creatore». Questo, prosegue il nipote del Papa, «vale per le questioni morali che stanno a cuore alla Chiesa, come l’aborto e l’eutanasia, perché è Dio che dà la morte e la vita, non noi». E vale per un tema come il cambiamento climatico. «Noi siamo i custodi della natura, non i dominatori. Prendersi cura è il vero significato della parola amore: non disegnare i cuoricini, vivere uno abbracciato all’altro, ma prendersi cura, custodire, servire fino a dare la vita».
Prendersi cura innanzitutto dei propri fratelli: nei lunghi mesi della pandemia, racconta il gesuita argentino, il Papa era preoccupato: «Una pandemia può essere l’occasione che il Signore permette per convertirci, ma c’è chi la usa per fare affari. C’è il rischio che alcuni vengano dimenticati, che il vaccino sia soltanto per chi ha i mezzi per pagarlo». Lo stesso vale per altri fratelli spesso dimenticati. «Una volta», racconta padre Narvaja, «mi hanno chiesto qual è l’agenda del Papa. In realtà ci sono cose che lui stesso non aveva previsto. Mi ha raccontato che all’inizio del pontificato era preoccupatissimo leggendo le notizie dei migranti sui giornali. E a un certo punto ha sentito: devo andare a Lampedusa, questo è lo Spirito che mi ispira. Così è nato il suo primo viaggio, nella preghiera».
Un metodo che Francesco non cessa di riproporre alla Chiesa intera: «Lo Spirito – dice suo nipote – ha parlato e parla ancora, e fa le cose nuove: non con la magia, ma tramite noi».