Giovanni Bianchi, classe 1939, da presidente nazionale delle Acli ha osservato a lungo Enrico Berlinguer. Anche nei suoi lati più personali. “I colloqui con lui erano caratterizzati da silenzi, parlava attraverso le pause. Era bene saperlo prima: eri tu a dover dire. Lui ascoltava. Poi decideva, dopo lunga ruminazione”.
Era fatto così Enrico Berlinguer. Secondo Bianchi - per tre legislature in Parlamento tra i Popolari di cui è stato anche il primo presidente - il segretario del Pci era soprattutto “un anti-italiano”, perché “seppe tenere insieme etica e politica” non solo per il proprio partito, ma per l’intero spettro della società e della politica tra anni 70 e 80.
Fu infatti Berlinguer a lanciare la parola austerità. Innanzitutto per se stesso. “Era lontanissimo delle schermaglie dialettiche, dalla pubblicità di sé stesso, dalla frequentazione della dimensione delle immagine che oggi forma il corredo più aggiornato del politico di successo”. Un’eloquenza fatta di parole scarse, quello del leader Pci. Scandita, appunto, da pause eppure profonda, emotiva. Il suo grande merito politico? “Avere trovato nella parola austerità il cemento dell’eurocomunismo, ovvero il modo per sottrarre il comunismo alla competizione per la crescita che l’Unione sovietica stava combattendo con gli Usa”.
L’austerità, così, uscì dal recinto dell’etica. “Significò anche individuare un nuovo modello di sviluppo del neocapitalismo che non coincidesse con una crescita ad oltranza, indiscriminata, ad ogni costo”. E proprio questo ha consentito a Berlinguer “di tenere insieme l’austerità con l’attacco alla partitocrazia”. Da qui la famosa battaglia per la questione morale, “una critica non troppo velata fatta alla Democrazia Cristiana di allora, che si era fatta partito-Stato. E una netta presa di distanza dal Psi di Bettino Craxi che ambiva a diventarlo”.
Da questo punto di vista anche la vicenda del compromesso storico fu certo motivata dal contesto internazionale, ma si colloca “in stretta continuità con il Gramsci di Ordine nuovo, quello che ai suoi compagni torinesi diceva “litigate pure con preti e suore ma quando avremo conquistato il potere anche essi avranno diritto a uno stipendio”.
In tal senso Berlinguer porta a compimento Togliatti, “non tanto quello della svolta di Salerno che apre alla conciliazione nazionale e all’amnistia, ma quello successivo che trova espressione nel discorso di Bergamo nel 1962”. Sono gli anni, anzi i giorni, della Pacem in terris di Giovanni XXIII, enciclica pubblicata a Concilio in corso e all’insaputa dei padri conciliari. Documento rivoluzionario che “conteneva una categoria politica di fondo, ovvero la distinzione tra errare ed errante e dunque tra movimenti e ideologia. E individuava tre segni dei tempi: il riscatto dei lavoratori; l’emancipazione della donna; il raggiungimento della dignità dei popoli in via di sviluppo”. Erano tutti e tre elementi fortemente politici, dichiara Bianchi, che pur presenti in Togliatti, diverranno gli elementi cardinali della politica di Berlinguer”.
Da questo punto di vista l’allora segretario del Pci, morto nel 1984, si colloca tutto “interamente dentro l’etica cattolica”. Non è un caso, ricorda ancora Bianchi, che “ai funerali di Togliatti fu uno di noi, Domenico Rosati, allora presidente nazionale delle Acli, a pronunciare un commosso ricordo. Eravamo mondi che si parlavano. Si sfioravano, a volte si toccavano”.