Il danese Carl Theodor Dreyer, uno dei più grandi registi della storia.
Già nell'era del muto si capisce come l’argomento cinema e Sacre Scritture diventi sempre più appetibile scorrendo i nomi dei registi, che da abili artigiani adesso cominciano ad avere nomi importanti, da Abel Gance in Francia a Michael Curtiz, ancora in Ungheria ma presto emigrato negli Stati Uniti, da Carmine Gallone in Italia al grande Carl Theodor Dreyer in Danimarca, che nel 1920 gira Fogli del libro di Satana, sul tradimento di Giuda, che si è lasciato comprare da un fariseo, incarnazione del demonio.
E anche la Germania, uscita a pezzi dal primo dopoguerra, con Robert Wiene non rinuncia alla figura di Gesù. Il film è I. N. R. I.: sul modello di Intolerance, la passione di Cristo viene vista parallelamente a quella di un nostro contemporaneo. Condannato a morte per aver ucciso un dittatore, un uomo si converte prima di morire rinunciando alle idee rivoluzionarie.
Dalla Bibbia alla modernità attraverso parallele vicende che accostano la figura di Cristo a quella dell’uomo oggi. Un tema sempre più sfruttato dal cinema che, comunque, non rinuncia alla trasposizione della tradizione biblica tout court. Ecco, allora che, accanto a Cecil De Mille con i suoi Dieci comandamenti (1923), enorme successo ottiene anche Fred Niblo con un Ben Hur (altro kolossal) del 1925 mentre l’anno dopo, ancora negli Usa, Il re dei re, del solito De Mille, ottiene incassi da record. Sempre l’instancabile De Mille, nel 1932 gira Il segno della croce; va apprezzato, inoltre, tre anni dopo, Golgota, di Julien Duvivier, addirittura con Jean Gabin.
Charlton Heston nel "kolossal sul Tevere" Ben Hur.
Cinecittà, Hollywood sul Tevere
Il cinema è arrivato all’epoca del sonoro, Hollywood è regina della produzione mondiale e in tutto il mondo il cinematografo è uno dei passatempo preferiti dal pubblico. Ci pensa la seconda guerra mondiale a mandare tutto in secondo piano. Le case di produzione ora sono indirizzate verso la propaganda bellica e ideologica. Tuona il cannone per la Bibbia, i Vangeli e le religioni tutte: al cinema non c’è più spazio, almeno per il momento, per Dio.
Finito il conflitto, però, dalle macerie d’Europa rinasce una nuova voglia di cinema. I temi sono tanti e i generi anche. In Italia, Cinecittà in poco tempo diventa la Hollywood sul Tevere, la capitale dei sandaloni. Girano per la città decine di comparse vestite da romani antichi, anche se con l’orologio al polso. Gli americani sono tornati da noi ma stavolta l’arma che utilizzano è la cinepresa: a costi relativamente bassi gli Stati Uniti danno lavoro alle maestranze di Cinecittà. Si girano sandaloni-kolossal destinati a restare nella storia.
Fiorisce un genere che sta a metà fra la mitologia e il rispetto biblico, film pseudo-storici con protagonisti più o meno realistici e che magari nulla hanno a che vedere con i testi sacri, ma che vengono fatti sconfinare ora in Egitto, ora in Palestina, e transitare per l’antica Roma, a seconda degli umori dei registi, non mancando quasi mai di avere come punti di riferimento il cristianesimo e la religione cattolica. Ercole, Ursus, Maciste, Giasone, Golia, Dalila, Salomè, Susanna, Ester, l’antica Roma, i suoi condottieri, di tutto un po’, in un minestrone che accalappia facilmente il pubblico meno critico e più disposto alla fantasia mitologica, purché questa resti poco approfondita ma prontissima a far menare le mani in un tripudio superficiale e a tratti anche sgradevole di colonne in finto travertino che crollano di fronte alla forza “bestiale” di questo o quell’energumeno eletto a divo dell’antichità.
E ancora, alla fine, ecco Ben Hur, stavolta il più celebre, quello con Charlton Heston, diretto da William Wyler, nel 1959. Mentre mai girato, forse per fortuna, ci sarebbe, raccontano a Cinecittà, un film in un cassetto il cui soggetto prevederebbe addirittura Gesù contro Maciste!
Aldo Fabrizi in Roma, città aperta: lotta al nazifascismo e pensiero rivolto al Signore.
Pietà e spiritualità di Aldo Fabrizi
Prima di questo carnevalesco baraccone produttivo, comunque, anche il neorealismo s’è interessato a temi religiosi, non tutti propriamente visti dalla prospettiva iniziale, quella della Bibbia. E se nel 1948 Goffredo Alessandrini gira L’ebreo errante, nella memoria collettiva restano più scolpite le rappresentazioni indirette di Gesù, della carità e della spiritualità, magari attraverso il prete romano martire interpretato da Aldo Fabrizi in Roma, città aperta o grazie alla comunità di frati di Paisa’, entrambi di Roberto Rossellini, padre della cinematografia italiana moderna e destinato, anni più tardi, a girare Il Messia, non tra le sue opere più riuscite ma pur sempre di netta derivazione dalle sacre scritture.
Ingmar Bergman, regista svedese di cinema e teatro tra i più grandi di sempre.
Bresson e Bergman, le luci d'inverno
È il periodo in cui anche molti maestri europei propongono temi cinematografici che hanno a che fare con la domanda di spiritualità di ognuno, traendone pellicole di grande impatto e di notevole rilievo artistico. Dal francese Robert Bresson (Il diario di un curato di campagna, del 1950, ma anche La conversa di Belfort, del 1943) a Carl Theodor Dreyer (Ordet – La parola, del 1955), passando per lo svedese Ingmar Bergman (basterebbe Il settimo sigillo, del 1957, ma valgono anche ritratti intimi di grande afflato artistico come Il posto delle fragole, dello stesso anno, e soprattutto Luci d’inverno, del 1963), fiorisce una cinematografia che pone dubbi, inquieta l’anima, cerca una luce interiore, dove la religione intesa come facilmente iconografica non c’è quasi mai ma la parola di Dio si trasferisce all’uomo di oggi.
E anche in Italia, lo stesso Rossellini e autori del calibro di Federico Fellini cercano una religiosità intima contemporanea attraverso film come Francesco, giullare di Dio (1950), Atti degli apostoli (1968) dell’autore romano, o La strada (1954) del maestro riminese. Niente a che vedere, dunque, con l’imitazione di quadri e dipinti riproposti in movimento o, peggio ancora, con il gusto “americano” del racconto biblico attraverso un cinema d’avventura e di genere che finisce per avere ragione quasi esclusivamente al botteghino, come nel caso de Il re dei re, del 1961, lavoro dalla spettacolarità dichiaratamente hollywoodiana di Nicholas Ray.
Pier Paolo Pasolini, l'occhio poetico di un non credente sul Vangelo.
Pasolini, la Palestina a Matera.
Eppure, il lato più curioso di questa piccola storia del cinema biblico o derivato da esso è che il Gesù protagonista fin dagli esordi della storia del cinema diventa un Cristo di potenza immaginifica assoluta grazie a un regista dichiaratamente non credente come Pier Paolo Pasolini, che con coraggio fin dal titolo, nel 1964 osa girare Il Vangelo secondo Matteo, probabilmente ancora oggi la lettura cinematograficamente più alta della vita del figlio di Dio.
Un Cristo che resta nella memoria in tutto il mondo, tanto da far meritare al regista il premio dell’Ocic (Office catholique international du cinéma) alla Mostra di Venezia del 1964. Gesù è tanto poco spettacolare rispetto alla babele degli anni precedenti quanto definitivo in ogni azione, in ogni gesto, in ogni parola. Ed emozionano allo stesso modo la figura di Maria, che Pasolini assegna come ruolo proprio a sua mamma; lo scenario, ricreato fra i sassi di Matera; la partecipazione di intellettuali amici del regista in ruoli non marginali, da Francesco Leonetti (Erode II) a Enzo Siciliano (Simone), da Natalia Ginzburg (Maria di Betania) ad Alfonso Gatto (Andrea).
Non sorprende, d’altronde, che sia l’ateo Pasolini a parlare di Cristo con rispetto e amore. Il poeta friulano, infatti, aveva esordito con Accattone, altro esempio di religiosità umana contemporanea, e aveva girato un delizioso episodio del film Ro. Go. Pa. G., dal titolo La ricotta, dove un sottoproletario che fin dal nome, Stracci, mostra di essere l’ultimo dei reietti, fa la comparsa di Cinecittà ma muore d’indigestione mentre recita sulla croce la parte del ladrone buono.