Secondo quanto accertato dalla commissione antimafia il boss di Cosa nostra, Toto Riina si trova «in una condizione di cura e assistenza continue che, a dir poco, sono identiche - se non superiori - a quelle che potrebbe godere in status libertatis o in regime di arresti domiciliari, e in cui gli è ampiamente assicurato il diritto, innanzitutto, ad una vita dignitosa e, dunque, a morire, quando ciò avverrà, altrettanto dignitosamente a meno che non si voglia postulare l'esistenza di un diritto a morire fuori dal carcere non riconosciuto dalle leggi vigenti». È uno dei passaggi chiave della comunicazione della presidente della Commissione, Rosy Bindi. Dopo il sopralluogo a Parma, nell’ospedale dove Riina è ricoverato in regime carcerario, cioè sorvegliato e isolato come prevede il 41 bis, la Bindi ha dichiarato che «il detenuto, nei limiti di quanto è stato possibile apprezzare, conserva immutata la sua elevata pericolosità, concreta e attuale, essendo, nonostante le difficoltà motorie, perfettamente in grado di intendere e di volere, ancora vivamente interessato alle sue vicende processuali, nella piena condizione di manifestare la sua volontà, e, di converso, non avendo mai esternato segni di ravvedimento».
La Bindi ha riassunto la condizione del «capomafia corleonese, oggi ottantaseienne», tratto «in arresto il 15 gennaio 1993 e, da subito, sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall'art. 41- bis o.p.». Riina, «dopo periodi di detenzione all’Asinara e ad Ascoli Piceno, nel 2003 veniva condotto presso la casa di reclusione di Milano-Opera e, dal 2014, in quella di Parma; nel corso degli anni aveva manifestato alcune patologie, sia di natura cardiaca (affrontate anche con la chirurgia) sia, più di recente, di natura neoplastica (ma in fase di stabilità), per le quali ha finora ricevuto adeguate cure. Infatti, le case di reclusione di Opera e di Parma dove è stato recluso negli ultimi anni sono le uniche strutture dotate sia di “sezione 41 bis” che di centro diagnostico terapeutico e hanno altresì la possibilità di avvalersi di un reparto detentivo all’interno di vicine strutture sanitarie pubbliche». Ancora «Riina, dal gennaio 2016 ad oggi, è stabilmente ricoverato nel reparto detentivo di una struttura ospedaliera pubblica di Parma; anche nel periodo successivo a tale duraturo ricovero ha continuato a partecipare, in videoconferenza, alle numerose udienze che lo riguardano, così dimostrando di conservare lucidità psichica e anche una certa capacità fisica tanto da sottoporsi ai continui trasporti presso la casa di reclusione di Parma – dove si trova la sala per la celebrazione delle udienze a distanza – per poi fare rientro, in giornata, in ospedale; dopo la pronuncia della Cassazione, è stata attivata la procedura per la predisposizione di un letto ospedaliero di nuova tecnologia per il caso in cui il detenuto dovesse rientrare in carcere».
Dopo aver ribadito che la forza di uno Stato si manifesta nel continuare a tenere in carcere, secondo quanto stabilito dalle nostre leggi,
un boss pericoloso che «è stato e resta il capo di Cosa nostra non perché lo Stato ha vinto, ma perché caapo rimane per le regole mafiose», la Bindi ha espresso preoccupazione per l’invecchiamento di tante persone sottoposte al carcere duto. «
Se si è potuto constatare che per il Riina si è stati in grado di assicurare ogni suo diritto nel regime intramurario», ha dichiarato la presidente dell’antimafia, «va espressa invece preoccupazione per quanto potrebbe accadere a breve rispetto alla gestione di altri detenuti sottoposti al regime del 41- bis bisognosi di trattamento similare. Non sempre, infatti, le strutture ospedaliere pubbliche hanno, nella sezione riservata ai detenuti, un numero di celle sufficienti per rispondere a richieste di cura e di assistenza che si prevedono crescenti, così come, parallelamente, i continui spostamenti dei detenuti ospedalizzati per la partecipazione a distanza alle udienze.
Tutto ciò richiederà un maggiore numero di personale specializzato penitenziario con aumento dei rischi. Occorre dunque adottare tempestivamente soluzioni di ricovero e cura ottimali, per quanto possibile intramurarie dentro il sistema carcerario, in grado di soddisfare i diritti del singolo ma anche la tutela della collettività, nonché comunque soluzioni idonee a evitare ripetuti trasferimenti dei detenuti adeguando ove occorra le stesse strutture sanitarie pubbliche con sistemi di videoconferenza».