E' attualmente in discussione alla Camera dei deputati il disegno di legge (si può trovare il PDF negli allegati di questo dossier) sulle Disposizioni anticipate di Trattamento (DAT), già approvato nel marzo 2009 in prima lettura al Senato. Il presente dossier cerca di fare il punto sulla situazione.
L'articolo 32 della Costituzione italiana prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se
non per disposizione di legge». In altre parole: qualsiasi cura a cui siamo sottoposti dev'essere preventivamente concordata da noi con il medico curante. Dunque, a meno che non siano obbligatorie per legge (ad esempio in tema di vaccinazioni infantili), le cure possono al limite anche essere rifiutate, anche quando questa scelta può portare alla morte.
Cosa succede, però, se, per malattia o per incidente, si perde la coscienza in modo permanente e non si può più decidere (e comunicare ai medici) a quali trattamenti, magari anche molto "invasivi", sottoporsi? Chi decide per me? Il medico, i familiari, qualche frase che ho buttato là in una discussione occasionale?
Finora, almeno fino a quando le tecniche mediche non erano a tal punto sviluppate da salvare situazioni un tempo fatali, la natura faceva il suo corso e, salvo il tentativo di fare comunque il possibile da parte dei medici, il problema non si poneva: la persona infatti moriva. Il medico, poi, era un tempo una figura "amica" del paziente e, se a volte magari scadeva in una sorta di paternalismo un po' calato dall'alto, ciò non toglie che per le sue specifiche competenze, per la generale ignoranza in materia della gente comune e per una grande e diffusa fiducia verso le istituzioni (e il dottore lo era), egli rappresentava la persona più giusta per consigliare e scegliere quella che, a suo modo di vedere, era la cura più adatta. A questo si aggiunga che un tempo non erano molte le cause giudiziarie per colpa medica, al contrario di oggi che sono molto più frequenti. Questo fatto provoca ovviamente nei sanitari un desiderio di maggior cautela e protezione giuridica in caso di decisioni gravi da prendere.
La situazione evidentemente è cambiata: sempre più spesso il progresso della tecnica permette a una persona, attraverso strumenti sofisticatissimi, di sopravvivere in caso di incidente grave. Anche se spesso in condizioni molto diverse da quelle di cui si è goduto prima della malattia: è il caso, ad esempio, del cosiddetto "stato vegetativo permanente", dove la persona, perdute (almeno apparentemente) le funzioni cognitive che le permettono un contatto con il mondo esterno, magari per un incidente stradale o un aneurisma, conserva però integre tutte le funzioni vitali, che per continuare a funzionare devono però essere aiutate da strumentazioni che permettono l'alimentazione e la respirazione artificiale.
Le domande che sorgono allora sono le seguenti: è vita degna questa? O, soprattutto se si adotta un certo riduzionismo antropologico («è uomo solo chi riesce a comunicare con l'esterno»), ci troviamo in questi casi in un terzo ordine di status, quasi in mezzo al guado (una specie di terra franca, insomma) fra una "vita piena" e una "morte definitiva" e, dunque, si può fare quello che si vuole? E poi: chi può decidere se porre fine a un'esistenza di tal genere? La società, e per essa lo Stato, o il singolo cittadino, con le sue idee e la sua visione di vita?
Insomma, che fare in questi frangenti? In quale modo evitare il cosiddetto (e disumano, rifiutato da tutti laici e cattolici) "accanimento terapeutico" e dare dignità, allo stesso tempo, alla vita fino al suo ultimo istante, assumendo tutte le pratiche che una buona medicina permette (fra cui, soprattutto, le cure palliative)? E' possibile, poi, fare una legge per regolare questa materia, considerando che queste situazioni variano grandemente da caso a caso?
A tale quesione si sovrappone (ma non dovrebbe visto che la fattispecie è completamente diversa) quella dell'eutanasia, la possibilità, cioè, di dare deliberatamente la morte a un soggetto che, nel pieno possesso delle sue facoltà, lo richieda per il suo stato di estrema debilitazione morale, psicolgica e fisica dovuta, ad esempio, a una grave malattia. Se alcuni Stati la ammettono (la Svizzera o gli Stati del Benelux), altri, come l'Italia lo puniscono penalmente e non è minimamente a rischio di cambiare orientamento. Così recita, ed è applicabile a tutt'oggi, l'articolo 580 del Codice penale ("Istigazione o aiuto al suicidio"):
«Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui proposito
di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito,
se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni».
I rischi che si corrono
La questione sul testamento biologico, in realtà, è solo uno dei settori di quella disciplina che si chiama "bioetica" e che ha a che
fare, necessariamente, con la "biopolitica", cioè con le decisioni dello
Stato di normare o meno una materia "eticamente sensibile": l'abbiamo
vista ad esempio, mutatis mutandis, con la legge 40 (procreazione
assistita) e con l'aborto (il feto è "vita" o "non ancora vita"?).
Ne caso del biotestamento il rischio, richiamato da molti, è quello di aprire le
porte, permettendo che si possa autorizzare nelle dichiarazioni anticipate di trattamento di "staccare la spina" o, ancor peggio, di permettere
l'eutanasia, alla creazione di una classe di persone diverse, la cui
vita vale meno semplicemente perchè volge al termine o perchè si trova
in uno stato di grande sofferenza e prostrazione. Questo, per
inciso, potrebbe portare, in nome della riduzione delle spese mediche, a
far sentire queste persone di peso, inutili. E quindi a chiedere di
essere "soppresse". Ma un uomo non rappresenta un valore "a prescindere"
dalla sua condizione? E, per chi si professa cristiano, non è forse
creata a immagine di Dio?
Forse, al di là di ogni legge o norma che regoli la questione, è anche da ripensare a partire dai fondamenti la dimensione umana della cura delle persone malate. Esistono aspetti medici, che indubbiamente devono essere affrontati nella loro complessità, ma ne esistono di altrettanto importanti che rispondono alle esigenze imprescindibili di ogni essere umano: quello di essere amato nella sua dimensione di sofferenza, di minorità, di morte che si avvicina. In questo molto possono i medici ma di decisiva importanza sono i familiari, i cappellani ospedalieri, le organizzazione di volontariato, ma anche e soprattutto ciascuno di noi che si prenda a cuore una persona, vicina o lontana.
Il testo in discussione in questi giorni a Montecitorio nasce qualche anno fa, nell'aprile del 2008. Fu allora che venne presentata la prima bozza di legge al Senato (cosiddetto disegno di legge Calabrò dal nome del relatore di allora). Assegnata dapprima alla Commissione Sanità di Palazzo Madama, il testo fu approvato nel marzo del 2009 sull'onda emotiva seguita alla morte di Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo permanente da 17 anni deceduta in seguito all'esecuzione di una sentenza della Corte di appello di Milano, e dopo una lunghissima vertenza giudiziaria condotta dal padre Beppino Englaro, che autorizzava di sospendere l'alimentazione della donna (sentenza poi "eseguita" in una clinica di Udine).
In realtà di biotestamento si era già parlato qualche anno prima, precisamente nel 2001, al momento cioè della ratifica in Italia della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo (sottoscritta da molti Stati nel 1997), il cui articolo 9 prevede che saranno tenuti in considerazione i desideri del paziente senza alcun vincolo però del medico di seguirli. Il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la bioetica entrò nel merito del discorso con il documento "Dichiarazioni anticipate di trattamento" (v. allegato al dossier) in cui veniva citata proprio la Convenzione di Oviedo e l'opportunità, in caso di varo di una legge in Italia, di svincolare il medico dall'obbligo di seguire alla lettera le indicazioni del "testatore" biologico. Cosa che non esime comunque il sanitario a prendere ispirazione a quanto lasciato scritto da quest'ultimo.
Dopo essere caduta nell'oblio per quasi due anni (in realtà il ddl era già passato per la commissione Affari sociali nel luglio 2009) l'iter della legge è ripreso (con relatore l'onorevole Di Virgilio) a seguito della fiducia votata al governo Berlusconi nel dicembre scorso. E' qui che, nell'ambito della programmazione delle attività parlamentari per l'anno 2011, i capogruppo di Montecitorio si sono accordati per portarla in aula già a marzo. E così è accaduto: dal 7 al 9 di marzo vi è stata la discussione generale in aula e la votazione definitiva del testo è ora prevista per il mese di aprile.
Se ci sarà, come probabile, qualche modifica, il testo dovrà poi tornare al Senato per l'approvazione definitiva, che avverrà, si spera, entro l'estate prossima.
Il mondo cattolico è praticamente tutto schierato per un'approvazione rapida di una legge che colmi un vuoto legislativo. E' di questi ultimi giorni l'appello firmato da 12 giornalisti e intellettuali, tutti volti noti e tutti impegnati a vario
titolo nel vasto mondo del cattolicesimo italiano: da don Antonio
Sciortino, direttore di Famiglia
Cristiana, a Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, Paolo Bustaffa del SIR, Francesco Zanotti
(direttore della Federazione dei
settimanali diocesani), Lorenzo
Ornaghi (rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore)
per finire con don Vinicio
Albanesi, fondatore
della Comunità di Capodarco. Si tratta dell'appello, pubblicato
per la prima volta sul quotidiano Avvenire lo scorso 12 marzo,
affinchè si giunga celermente a una legge sul cosiddetto "Testamento
biologico". Scopo della legge è che, come recita l'appello stesso, «il
Parlamento ponga per legge limiti e
vincoli precisi a quella giurisprudenza ‘creativa’ che sta introducendo
surrettiziamente nel nostro Paese arbitrarie derive eutanasiche».
Il riferimento è chiaro: la sentenza dei giudici della Corte
d'Appello del Tribunale
di Milano che hanno autorizzato, nel luglio 2008 l'interruzione del
trattamento di idratazione e alimentazione per Eluana Englaro.
Ma si sono pronunciati a favore della legge anche Mons. Elio Sgreccia, ex presidente del Pontificio consiglio per la vita, la comunità di Sant'Egidio e molti vescovi.
Il ddl in discussione alla Camera dei deputati è costituito di 9 articoli. In esso si dichiara innanzitutto come bene inviolabile e indisponibile quello della vita, anche nella fase terminale della malattia, con un espresso divieto di praticare l'eutanasia e l'aiuto, in qualsiasi forma, del suicidio. L'attività medica, infatti, è esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, incluso l'alleviamento della sofferenza.
L'articolato vieta anche l'accanimento terapeutico: se la morte del paziente appare imminente il medico dovrà astenersi da trattamenti eccessivi, cioè non proporzionati o che appaiono, in base alla situazione concreta, non efficaci. Per contro, si prevede l'obbligo di mantenere, fino al termine della vita, l'alimentazione e l'idratazione, tranne nel caso in cui esse non abbiano, nella singola situazione concreta, alcun effetto.
E' possibile naturalmente, presentare le dichiarazioni anticipate di trattamento («sono redatte in forma scritta con atto avente data certa e firma del soggetto interessato maggiorenne, in piena capacità di intendere e di volere dopo una compiuta e puntuale informazione medico-clinica, e sono raccolte esclusivamente dal medico di medicina generale che contestualmente le sottoscrive»): oltre a essere revocabili in ogni momento e a non poter disporre alcunchè in matera di alimentazione e idratazione, le DAT avranno la scadenza di 5 anni, al termine del quale periodo perderanno efficacia se non rinnovate.
Le DAT saranno prese in considerazione dal medco curante in caso di incoscienza del soggetto. Il medico, tuttavia, non sarà obbligato ad attenervisi ma dovrà agire secondo coscienzae secondo quello che la scienza medica consiglierà nel caso concreto.