Ci siamo detti spesso che, tra gli scritti di don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa era datata, andava contestualizzata in un'epoca e in una scuola – quelle degli anni Cinquanta e Sessanta - nel frattempo cambiate.
Ci si diceva che era acqua passata quella scuola che respingeva in partenza i ragazzi destinati a Barbiana fin dalle classi elementari, a vantaggio di una scuola più inclusiva e capace di aderire al dettato costituzionale.
La cronaca del momento però ci fa domandare se ci siamo illusi. Nel dibattito del Consiglio dei ministri qualche settimana fa, s'era discusso di decreti attuativi della buona scuola: il Guardasigilli Andrea Orlando chiedeva di mandare in pensione la possibilità di bocciare alle scuole elementari, il ministro dell’istruzione Valeria Fedeli chiedeva di conservarla, pur circoscrivendola all’extrema ratio, con paletti rigidi. Pare che, se non si cambia ancora, l'abbia spuntata lei. Un gruppo di pedagogisti che firma online una petizione contro la bocciatura alle primarie riaccende la discussione.
Il tema ci riporta, 50 anni dopo, dritto dentro il dibattito di don Milani e Mario Lodi. Ci fa rileggere Lettera a una professoressa con uno sguardo diverso, anche attuale, perché comunque i pochi casi, con paletti di oggi, somigliano ai tanti casi di allora. Soltanto che la marginalità geografica viene sostituita da altre marginalità diverse, sociali in prevalenza, che abitano al confine tra disabilità e "normalità", o nelle periferie in cui vivono bambini svantaggiati da una lingua diversa o nel disagio che è ancora come allora povertà di cultura e di occasioni ancora prima, o almeno quanto, povertà materiale.
Siccome, come allora, non è verosimile che, come don Milani scriveva quando bocciare alle elementari era la regola, Dio faccia nascere gli asini e gli svogliati solo nelle case dei poveri, è verosimile che quei pochi casi siano la spia del fatto che sia ancora oggi difficile colmare in classe gli svantaggi della vita. Una scuola che non riesce a colmare lo svantaggio iniziale a sei anni -quando è chiaro fin dai tempi di don Milani che lo svantaggio e l'eccellenza se non si fa qualcosa presto si allontanano progressivamente autoalimentandosi in reciproche, incolmabili, distanze - è figlia di uno Stato che, dopo aver visto ridursi a miraggio il lavoro dell'articolo 1 della Costituzione, vede virtualizzarsi il compito di rimuovere gli ostacoli alla pari dignità di tutti i cittadini dell'articolo 3.
Non c'è luogo migliore della scuola per ridurre le distanze, ma non si può neanche gettare la croce su singoli insegnanti, dirigenti, istituti, che si arrendono davanti a voragini per le quali si danno loro sempre minori risorse e strumenti. Non è questione di ricorsi e carte bollate. Il problema è più profondo, sta nel capire che un Paese in crisi, qualunque crisi, non può che rinascere rimettendo in cima alle priorità la scuola in cui crescono piccoli nuovi cittadini, cui un giorno sarà giusto chiedere di assumersi le proprie responsabilità. Ma non a sei anni, quando quelle responsabilità sono di altri.
Ps. A proposito che logica c’è nel conservare la possibilità di bocciare alle elementari e nell’alleggerire contemporaneamente e specularmente le richieste per l’ammissione alla maturità quando invece, a 19 anni, della propria condotta e del proprio senso del dovere si è anche per la legge pienamente responsabili?