(nella foto: il generale Fabio Mini)
“Bombardare i barconi in Libia? Sicuramente ci scapperebbe la strage”. Lo dice il generale Fabio Mini, che nel 2002-03 fu a capo della missione Nato in Kosovo, commentando la proposta del Governo italiano di un’operazione di polizia internazionale condotta con mezzi militari.
Generale, come si configurerebbe l’operazione?
Se l’obiettivo è distruggere le imbarcazioni usate dai trafficanti, dal punto di vista militare ci sono due opzioni. Si possono mandare dei sabotatori, cioè degli uomini, sulle coste libiche per individuare quali mezzi distruggere, capendone la proprietà e l’utilizzo (traffici o pesca). Nel caos libico attuale non mi sembra un’ipotesi realizzabile.
L’alternativa proposta dai ministri Alfano e Pinotti è bombardare le imbarcazioni dalle nostre navi militari, senza mandare uomini sul campo e utilizzando invece i droni. È un’ipotesi da scartare immediatamente per l’impossibilità di individuare con certezza a chi appartengono le barche e soprattutto se in alcuni casi ci siano a bordo profughi in procinto di partire. Se io fossi un trafficante senza scrupoli, utilizzerei subito i migranti come scudi umani, caricandoli sulle imbarcazioni. Se sceglieremo questa strada, mettiamo in conto che sono possibili errori e quindi stragi.
Eppure il ministro Alfano parla di negoziato in corso con l’Onu e l’Ue per legittimare la proposta a livello internazionale.
Se affondassimo un barcone con profughi a bordo, comunque l’eventuale autorizzazione internazionale non ci garantirebbe. Autorizzazione e liceità non sono concetti identici, tanto più quando si parla di vite umane.
Come paragone della proposta italiana si indicano la missione in Somalia e quella in Albania del 1996-97.
“Atalanta”, in corso in Somalia, è una grossa missione aeronavale per pattugliare le coste dal pericolo dei pirati, senza l’invio di militari sulle coste. Prevede un forte dispiegamento di forze, eppure non ha migliorato granché la situazione e infatti la Somalia è uno dei paesi da cui scappano i profughi. In Albania, invece, il Governo italiano fece alcune missioni – piccole ma con l’invio di uomini sul campo – per distruggere i motoscafi nascosti dai trafficanti negli anfratti delle coste albanesi. Senza sbandierarlo con annunci, gruppi scelti di incursori, i cosiddetti “uomini rana”, partirono di notte per colpire le imbarcazioni. Le rocciose coste albanesi – ma anche il rapporto con le autorità locali – non sono però paragonabili con quelle libiche, ben visibili e certo non frastagliate; in Libia il problema non è che i barconi sono nascosti. Peraltro quelle missioni non furono decisive nel frenare il traffico di uomini, ma diedero un segnale. Piuttosto fu decisivo il supporto italiano al Governo albanese e in genere all’Albania. Se una missione militare non è inserita in una visione politica più ampia, serve a poco. Qual è la nostra sulla Libia? Fa bene Romano Prodi, che conosce bene l’Africa, a chiedere di fare pressioni sui due Governi rivali in Libia, pur sapendo che il processo di stabilizzazione sarà lungo.
C’è anche chi ha proposto di intervenire militarmente in Libia.
Per fare cosa? Eventuali opzioni militari devono essere funzionali a un obiettivo. Se fosse quello di imporre un accordo tra i due Governi libici – e le tante fazioni coinvolte – per avere un unico interlocutore, credo che un intervento militare sarebbe fallimentare. Diversa potrebbe essere una missione militare, ovviamente con mandato internazionale, finalizzata alla gestione dei flussi di profughi. A mio avviso è auspicabile, lo abbiamo già fatto a Timor Est, in Kosovo e in Macedonia. Sicuramente sarebbe più efficace del bombardamento delle imbarcazioni. Il vero problema da porsi è infatti come gestire flussi di persone che scappano dalla guerra e dalla fame. Gheddafi lo faceva con metodi disumani, l’Europa dica come propone di farlo.