Quando, ormai quattro o cinque anni fa, andai a trovarlo in ospedale dove “soggiornava” per un ennesimo ricovero (soggiornare è il termine giusto, perché ormai il Niguarda era il suo quartier generale), rimasi colpita dalla sua efficienza. Utilizzando contemporaneamente internet e telefono cellulare, stava organizzando un’ambulanza per le sue dimissioni. «Franco, ma fai tutto da solo», gli chiesi. Ingenua e stupida. Lui mi guardò, sorrise strizzando le labbra, come faceva, e mi rispose: «Ovviamente!».
Qualche mese fa lo incontrai al supermercato, era un sabato pomeriggio, ci fermammo per i saluti di rito. Poi lo cercai e gli chiesi: «Franco, ma tu il sabato vai a fare la spesa con la tua fidanzata?». E lui, sornione: «Ovviamente…».
Per non parlare poi di quella volta che arrivò in ritardo a un convegno (era il relatore) perché non aveva trovato parcheggio. E io sempre, testa dura: «Franco, ma tu guidi?». «Ovviamente».
Ce n’è voluta di pazienza, con me. Eppure, con quella parola – ovviamente – detta tra lo spazientito, l’ironico, più spesso il rassegnato, mi ha lasciato il suo insegnamento più profondo. Quello per cui non smetterò mai di ringraziarlo. Perché Franco quello che diceva lo viveva, nel vero senso del termine: lo portava ogni giorno sulla sua carrozzina («Non carrozzella, perché la carrozzella è quella che circola nelle vie del centro di Roma o di Firenze, tirata da cavalli»), lo trascinava di peso con le sue ossa fragili (soffriva dalla nascita di osteogenesi imperfetta), lo dichiarava con quella voce sempre pacata, ma che ti entrava dentro.
L’ultima intervista l’aveva rilasciata a me, per Credere. Si trattava di commentare la campagna pubblicitaria promossa da Famiglia Cristiana "Anche le parole possono uccidere". E Franco Bomprezzi – giornalista “a rotelle”, scrittore, blogger, uno dei massimi esperti nazionali nel campo della disabilità, già Ambrogino d’oro e Cavaliere della Repubblica – era la persona giusta. Mi disse: «Le parole sono contenitori. Dentro, c’è la vita. Ci sono le persone. Con la loro dignità. Oggi, sfruttiamo le parole, le usiamo fuori dal loro contesto, le carichiamo di violenza e, soprattutto, dimentichiamo che al centro di ogni comunicazione ci sono le persone, non le parole, che hanno un nome, una storia e, soprattutto, il diritto a essere rispettate».
Franco ha trascorso la vita a combattere i pregiudizi (la malattia, quella no, non poteva combatterla). È stato interlocutore di associazioni e istituzioni (ha collaborato anche con il Comune di Milano). Additava il termine “diversamente abili”: in uno dei suoi ultimi post (era un fiume in piena, scriveva su giornali, social, riviste, blog…) lasciati sul sito www.dismappa.it, scrisse: «Questa ipocrita locuzione non mi piace affatto, anzi non piace ai diretti interessati di tutto il mondo, e infatti, alle Nazioni Unite, hanno detto chiaro e tondo che siamo “persone con disabilità”. Persone, capisci? Con un nome, una dignità, un posto nella società. Non siamo “diversamente abili”: siamo quello che siamo, più o meno abili, più o meno in grado di rappresentare noi stessi con la parola o con lo sguardo o in altro modo».
Ecco, alla fine per Franco anche questo era un problema “di parole”. Che uccidono, appunto. Costruiscono muri. Allontanano. Esteriorizzano le paura. Ripeteva sempre: «È la società che crea la disabilità, perché spesso essa non è in grado di offrire opportunità, strumenti, supporti, perché le abilità di ciascuno siano a disposizione di tutti».
La verità è che (nonostante siano state diffuse molte notizie errate) Franco sapeva di dover morire: lo sapeva da un mese, più o meno. Ho parlato con persone che lo hanno incontrato in questi giorni: era pronto, ma come sempre combattivo. Lunedì aveva detto a un amico comune che era fiducioso. Giovedì è morto. Ma il suo ultimo pensiero lo aveva postato la sera prima, il suo ultimo collegamento video (su Raiuno, a sostegno di Telethon) lo aveva fatto domenica… Insomma, Franco era un guerriero. Di quelli che sono in prima fila per gli altri, prima che per se stessi. Che attaccano. E fanno goal. Il suo bellissimo gatto si chiama Ibra, del resto. E Franco sapeva usare le parole.