Il ministro Alfonso Bonafede ha sbagliato la misura, tanto che non c’è quasi nessuno che lo difenda. Il filmino corredato di sottofondo musicale, diffuso sulla sua pagina facebook, per celebrare l’arresto di Cesare Battisti con dovizia di immagini molto autocelebrative e borderline dal punto di vista legale ha tutta l’aria di un autogol istituzionale (si vedano l’articolo 114 del Codice di procedura penale che vieta pubblicare «l’immagine della persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta» e l’articolo 42 bis dell’Ordinamento penitenziario, che chiede «opportune cautele per proteggere» gli arrestati «dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità»).
Il registro di quell’esultanza per la cattura di un latitante mal si sposa con il ruolo di un ministro, a maggior ragione della Giustizia: fa a pugni con la funzione di chi dovrebbe ricordare a tutti che uno Stato di diritto, quando vince - ed è il caso in cui arresta e finalmente assicura alla giustizia dopo 37 anni un latitante condannato per quattro omicidi con sentenza definitiva – non ha bisogno di esibire lo "scalpo"; che quando lo Stato di diritto riesce a esercitare il proprio monopolio della forza legittima ha il dovere della sobrietà: deve dimostrare di saper dosare questa forza anche nella comunicazione, perché la misura e il limite della legge sono ciò che distingue il diritto da tutto ciò che diritto non è, il diritto dalla vendetta. Un atto di giustizia non è mai un atto di vendetta, nemmeno mediatica, il ministro Bonafede dovrebbe saperlo, come dovrebbe saperlo il ministro dell’Interno Salvini che, come l’uomo qualunque al bar, dell’arrestato dice «Marcirà in galera», parole comprensibili nell’esasperazione di una vittima, ma non nel ruolo di chi rappresenta le istituzioni.
Il conto con la giustizia va saldato non v’è dubbio, ma un ministro deve esprimere il concetto in altro modo, perché si tratta di non passare un messaggio che contrasti con l’articolo 27 della Costituzione, cui ogni ministro giura fedeltà, nel quale si dice che la pena «non deve essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato». Dettato incompatibile con il concetto di “marcire”. Si faccia il confronto con lo stringato comunicato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al momento della notizia dell’arresto, in cui esprimeva «la sua soddisfazione» e in cui si limitava ad augurarsi: «che Battisti venga prontamente consegnato alla giustizia italiana, affinché sconti la pena per i gravi crimini di cui si è macchiato in Italia e che lo stesso avvenga per tutti i latitanti fuggiti all’estero». La soddisfazione c’è ma la forma è ben altra.
Non è soltanto questione di buongusto, è questione di senso proprio del ruolo. Quel filmino nella sua gratuità è la negazione del ruolo di chi rappresenta la Giustizia nel Paese che ha insegnato al mondo, con Pietro Verri e Cesare Beccaria fin dal Settecento, a rendere giustizia nel rispetto della dignità dell’uomo. Riconoscere la dignità all’arrestato, nel sanzionarne le condotte illegali, è ciò che distingue lo stato di diritto. La forza dello Stato si esprime nell’atto della cattura (non nella sua celebrazione) ed è proprio quello il momento in cui, dopo averlo preso nel rispetto delle regole, lo Stato deve dimostrarsi diverso e più forte del singolo che prima ha cercato di sovvertirlo e poi a lungo lo ha irriso sfuggendo: non può rispondere all’irrisione con l’irrisione, ma deve replicare con la forza tranquilla della propria autorevolezza e con il rispetto delle regole.