Jorge Luis Borges (1899-1986).
«Il concetto di arte impegnata è un’ingenuità, perché nessuno sa compiutamente ciò che sta facendo». Così Borges (1899-1986), nel prologo a La rosa profonda, stampata a Buenos Aires nel 1975 (e ora riproposta da Adelphi, a cura di Tommaso Scarano, pp. 164, euro 13,00).
I prologhi sono per Borges luoghi di accesso e di ammonimento, di sapienza e di possibile poetica. In quello relativo a La rosa profonda lo scrittore argentino fissa per prima cosa l’insondabilità della parola poetica e poi la sua potenza: «La parola sarebbe stata all’origine un simbolo magico, che l’usura del tempo avrebbe indebolito. La missione del poeta sarebbe restituire alla parola, sia pure in modo parziale, il suo primitivo e oggi nascosto vigore. Due doveri avrebbe il verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare».
I versi sono portatori di suono, di una semantica moltiplicata dalla fisicità della lingua, che tenta di spogliarsi dell’abitudine per tornare alla nominazione e alla conoscenza. Le misure dei versi usati in questa raccolta sono per lo più tradizionali e frequentissimo è l’uso della forma metrica del sonetto, soprattutto nella variante elisabettiana. Ma la letteratura stessa è, per Borges, un labirinto, un gioco di specchi, una moltitudine enigmatica. L’uomo che scrive e la sua lingua cadono perciò nella rete inesauribile dei rimandi, delle possibilità, delle congetture: la parola è, come la rosa, inestricabile e alitante, profonda e infinita.
Il sapore specifico della poesia di Borges è proprio quello denso e corposo della deriva e inconoscibilità del mondo («La luna ignora che è tranquilla e chiara, / nemmeno sa di essere la luna; / la sabbia, d’esser sabbia. Non v’è cosa / che sappia singolare la sua forma», da Di come nulla si sa): tuttavia la sua opera non si risolve in nullificazione. Il gioco che intesse con le sembianze, con le larve, le apparizioni, le storie e le letterature è talmente sottile e calibrato che tutto resta in sospensione. Gioco, sarà bene dirlo, irripetibile.
Il suono dei versi di Borges è davvero, come il mare e la sua vicinanza,
illimitato e sussurrante: esperienza della fisicità suscitata
attraverso la combinazione e il calcolo, per produrre sperdimenti. Non è
assente la Patria da questi versi, scritti nei tormentati (per
l’Argentina e non solo) primi anni Settanta, con tra l’altro il ritorno
al potere di Perón, in polemica con il quale Borges lascia il suo
incarico di direttore della Biblioteca nazionale. Così, per riprendere
l’inizio, dire che l’arte impegnata è un’ingenuità non significa
sottrarsi al tempo, al suo travaglio presente, ma piuttosto affrontarli
attraverso una strategia che toglie e riedifica, sottrae e riforma.
Perciò alla fine di Un domani e dopo aver espresso, qui e altrove, una
sorta di senso di colpa per non aver combattuto per la patria da uomo
d’armi, come i suoi antenati, Borges scrive: «Nell’ubiqua memoria sarai
mia, / o patria, non nella frazione di ogni giorno». La memoria non
significa passato, ma continua rielaborazione e riscrittura. Borges
riattraversa tutta la letteratura amata, attingendo a tempi, culture e
latitudini distanti (in questo libro si va dal Beowulf alla letteratura
persiana, da Shakespeare a Browning, da Cervantes a Keats e a Edgar
Allan Poe, per citare solo alcuni rimandi): tutto ciò che è stato
pensato è anche nostro e noi siamo, in certo modo, visitatori di un
mondo pensato da altri e in ultimo creato da un Dio che si cela nella
sua stessa creazione.
Un mondo e un’esistenza che sono rosa ineffabile,
rosa senza fine, come Borges suggerisce, dando parola al mistico
persiano Farid ad-Din ‘Attar, nel testo che chiude il libro (The
unending rose): «rosa profonda, illimitata, intima, / che il Signore
darà a questi occhi morti».