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venerdì 08 novembre 2024
 
 

Boston, la città della paura

19/04/2013  Dall'attentato alla caccia all'uomo. Una settimana tragica per la città statunitense che rischia di concludersi in un altro bagno di sangue.

BOSTON - Coprifuoco! In tutta la città, compresi i sobborghi. Boston si sveglia con l’ordine di non uscire di casa, e di non aprire la porta se non a poliziotti in divisa. In corso una massiccia caccia all’uomo per catturare – e probabilmente uccidere - il secondo dei due sospetti autori dell’attentato di lunedì scorso alla maratona di Boston.

Il primo è stato ucciso nella notte dopo un’altrettanto drammatica caccia all’uomo iniziata nel campus del Massachussets Institute of Technology (MIT) con l’uccisione di un agente, poi una fuga in macchina verso il sobborgo di Watertown e uno scontro a fuoco reso ancora piu’ rischioso dal fatto che l’attentatore avesse su di sé un congegno esplosivo – il tutto, praticamente in diretta TV sull’affiliato locale del network NBC.

I due – identificati come Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, due fratelli Ceceni di 26 e 19 anni (il secondo dei quali sarebbe ancora in fuga) probabilmente integralisti islamici – erano stati già inchiodati dalle immagini diffuse dall’FBI ieri pomeriggio e indicati come i possibili autori dell’attentato. Le migliaia di foto scattate e video girati da privati del giorno della maratona hanno fatto il resto. Il cerchio si è chiuso intorno ai due in poche ore e al momento il timore di autorità e cittadini è che come spesso accade in questi casi il terrorista braccato scelga di farla finita nel modo più distruttivo ed eclatante possibile.

…e un settimana cominciata con un insospettato bollettino di guerra è destinata a concludersi sulle stesse drammatiche note.

Stefano Salimbeni

Carlo Nesti, noto giornalista, ha pubblicato sul suo blog "Sport e cristianità" questa commovente lettera al piccolo Martin, 8 anni, ucciso nell'attentato alla maratona di Boston mentre, sulla linea del traguardo, aspettava l'arrivo del padre al termine della corsa. La ripubblichiamo.


Ciao! Sono Martin. Martin chi? Ma Martin Richard, il bambino della maratona di Boston!
Ora sono Qua, in Alto, dove non mi vedete, ma dove so di restare bambino in eterno, se lo voglio, senza che nessuno possa impedirmelo. E sono Qua, in Alto, dove, pur essendo ancora piccolo, mi è tutto chiaro, senza bisogno di domande per mamma e papà.

Certo che, quando sono sceso fra voi, accidenti... pensavo di tenervi compagnia un pochino di più! Otto anni... Solo 8 anni... Però, che ne dite? Forse, per come stanno andando le cose, mi sono perso poi un granché? Mah...

Io ci ho provato a dare il mio contributo! Nessun uomo può cambiare, da solo, il “grande mondo”. Tutti, però, possono cambiare, da soli, il loro “piccolo mondo” individuale. Anche sbagliando, e cadendo, ma sempre con il desiderio di rialzarsi, come chiede Gesù, che ci perdona.

E il mio contributo era quel cartello: “Basta fare male alla gente, pace!”. Ne ero orgoglioso, sapete? Era la prima volta, in cui mi sentivo importante non, unicamente, per mamma e papà, ma pure per gli altri. Ho detto la prima volta. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima.

Ma ora, Quassù, sono felice, perché so quanto è stato buono il Creatore nel non imporci nulla, e lasciarci liberi di diventare ciò che vogliamo. E nella libertà, inevitabilmente, puoi incrociare chi, disprezzando la propria vita, disprezza quella degli altri.

So che giù, da voi, è difficile accettarlo. Anche io piangevo, quando un amichetto mi portava via un giocattolo. Quando perdevo qualcosa, che sentivo mio.

Ma Quassù tutto è mio, e “mio” è “tutti”. Non si litiga più. Qui è Gioia Assoluta. Avete presente l’esultanza straripante di papà, nel tagliare il traguardo della maratona, e magari vincere, mentre vincono anche tutti gli altri?

Ecco: io mi sento così sempre! E un miliardo di un miliardo di volte ancora di più! Vi auguro di capire che dovete lottare, ogni giorno della vostra vita, per questo traguardo. Credetemi: ne vale la pena!


Carlo Nesti
Segui Carlo Nesti su www.carlonesti.it

Boston - “Finiremo la corsa, come quell’atleta 78enne con la casacca arancione, caduto pochi metri prima del traguardo, sbilanciato dalla prima bomba … ci rialzeremo, e finiremo la corsa.” Così dalla cattedrale di Holy Cross a Boston, Obama incoraggia e rincuora una città, e una nazione intera, al termine del servizio di preghiera multiconfessionale in memoria delle vittime dell’attentato che lunedì scorso ha causato 3 morti e oltre 170 feriti tra gli spettatori e gli atleti della maratona. E riassume il sentimento di una nazione intera che anche in questo caso reagisce stringendosi attorno alle vittime e dichiarando, all’unisono, più unita che mai di non aver nessuna intenzione di arrendersi davanti al terrorismo, interno o internazionale che sia.

“Avete sbagliato città, ormai dovrebbe essere chiaro,” dice poi rivolgendosi – chiunque essi siano - agli autori del massacro, il cui bilancio oltre ai tre morti include una decina di amputazioni e almeno venti persone attualmente in prognosi riservata: un gesto ancora non rivendicato e che aggiunge il Presidente citando la madre di una delle vittime, “non ha assolutamente alcun senso”.

La città, nelle parole di Obama, è quella “sbagliata” perché’ fin dai primi minuti ha dimostrato una solidarietà e una risolutezza nel reagire che non lascia dubbi sul fatto che un attentato così vigliacco invece di intimidire i suoi abitanti li rende paradossalmente più coraggiosi e determinati nell’affermare e nel vivere quei valori civici che come ha detto il governatore Deval Patrick prima di lasciare il pulpito a Obama: “uniscono questa nazione più della lingua la cultura o la religione.”

Di fatto la città – una città i cui i vialoni del passeggio e dello shopping sono diventati praticamente una zona di guerra - ha risposto in massa, con migliaia di bostoniani che hanno sfidato l’ora di punta appesantita sia dai posti di blocco, e i mezzi paramilitari accorsi da tutto lo stato sia dai camion e dagli accampamenti delle televisioni di tutto il mondo, per mettersi in fila disciplinatamente fuori dalla Chiesa e unirsi ai loro leader politici (di tutti i partiti - oltre al presidente, c’erano il sindaco il governatore attuale e i 4 precedenti tra cui Mitt Romney,) e a quelli spirituali (di tutte le confessioni compreso l’arcivescovo Sean O’Malley), in un rito tanto religioso quanto civile, in cui preghiera, solidarietà e determinazione diventano un potente e catartico tutt’uno.

“Sono qui in fila dalle sette, ” dice Anna Drennan, una donna di mezza età dalle fattezze inconfondibilmente irlandesi, venuta qui dall’estrema periferia Sud. “Non conoscevo nessuno direttamente coinvolto ma questa è la mia città: dovevo esserci!”. In fila con lei e tanti altri residenti DOC anche moltissimi Bostoniani d’adozione come Adam Vandersluis, barba fitta da intellettuale, originario del Minnesota impiegato in una non-profit con sede nel centro città. “Parte di me è qui per curiosità dice ma fondamentalmente voglio testimoniare la mia solidarietà a questa gente, dopo tutto potrebbe succedere ovunque.” 

Poi c’è Sidra Mahmood, pakistana, ricercatrice al Massachusetts General Hospital (dove molte delle vittime sono ricoverate) viso dolcissimo avvolto da un hijab multicolore: “Sono qui per dimostrare che di fronte al terrorismo siamo tutti uguali, tutti uniti nella condanna e nell’oltraggio,” dice con il timore, dichiarato, che i fatti di lunedì riaccendano i focolai di intolleranza anti araba e anti islamica che seguirono i fatti dell’11 settembre.

“Boston è la vostra città” ha detto Obama rivolgendosi alla congregazione e alle autorità locali riunite in cattedrale “ma è anche un po’ la nostra, di quelli che come me ci sono venuti e ci vengono a studiare, a lavorare o a farsi curare negli ospedali, ad imparare da turisti la storia americana o a partecipare ai tanti eventi – compresi quelli sportivi. E quando la prossima squadra locale vincerà il campionato di football, basket, baseball o hockey sono sicuro che alla parata sarete tutti in strada, come sempre. E che la prossima maratona sarà più grande più bella e più affollata delle ultime 117”

Insomma, a Boston, la corsa è già ripresa, e il prossimo traguardo – con l’aiuto di migliaia di cittadini che stanno inviando le loro foto e i loro video agli inquirenti – è trovare i colpevoli e portarli, come ha detto Obama con gli occhi sì lucidi ma anche fissi al centro dell’ inquadratura, prima possibile avanti alla giustizia.

Stefano Salimbeni

Due esplosioni a 15 secondi e a cento metri di distanza l’una dall’altra: e la festa si trasforma improvvisamente in tragedia. Tre i morti accertati, oltre 150 i feriti, una ventina molto gravi, e la probabilità’ alta, come sempre in questi casi, che il bilancio lieviti col passare del tempo. Tutti tra gli spettatori - e gli atleti – convenuti nel centro di Boston per la maratona più antica e prestigiosa d’Amerca, uccisi, mutilati o semplicemente – si fa per dire - feriti in prossimità della linea del traguardo, ovvero nel punto più affollato dei 42 chilometri di tracciato, dove appassionati, giornalisti e curiosi si accalcano per cogliere l’entusiasmo non solo dei vincitori ufficiali ma anche e soprattutto della gente comune, dei corridori della domenica nel momento più bello, quello in cui vincono la sfida con se stessi.
Due ordigni, dunque, piazzati con l’intento chiaro e premeditato di uccidere e di fare del male a più persone innocenti possibile. E con queste premesse si va oltre la tragedia: la festa in questo caso si trasforma in un incubo.

Il giorno in cui si corre la maratona, a Boston, si chiama “Patriot Day” – ovvero il giorno in cui la culla della rivoluzione americana si ferma (unica città negli USA ad avere per questo il giorno di ferie) per ricordare – con tanto di rievocazioni storiche in costume dove abbondano salve di cannone e di moschetto - gli eventi del 19 Aprile 1775, quando le truppe regolari inglesi e i coloni stanchi di dipendere dalla corona si fronteggiarono militarmente per la prima volta dando inizio a quella rivolta che sfocio poco più di un anno dopo il 4 luglio 1776 nell’indipendenza dall’impero britannico.
Qui lo chiamano “the shot heard around the world” (lo sparo udito dal mondo intero).

Ieri, 238 anni dopo, paradossalmente è successa la stessa cosa: il botto delle 14:50 è rimbalzato immediatamente in tutto il globo risvegliando immediatamente lo spettro del terrorismo quando gli americani cominciavano quasi a non pensarci più. La conferma che di terrorismo (interno o internazionale che sia) si trattava è arrivata 15 secondi dopo, a 100 metri di distanza, rafforzata dalla notizia di un terzo dispositivo trovato e disinnescato in un albergo adiacente.
Proprio come l’11 settembre 2001, solo che in questo caso non servivano i minuti intercorsi tra i due aerei dirottati sulle torri del World Trade Center per attirare l’attenzione dei media. I media all’arrivo della maratona (la numero 117) c’erano già e hanno ripreso tutto in diretta, compresi gli atleti confusi che invece di correre verso il traguardo cambiavano direzione per salvarsi la vita.

Stavolta però in quelle esplosioni non c’era nessun eroismo: solo una vigliaccheria e una cattiveria senza fine. Tra le vittime c’è un bambino di 8 anni con l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ma vittima dell’attentato di ieri è un'intera città che dal terrorismo pensava – o sperava - di essere immune e che oggi si risveglia teatro del peggior attacco su suolo americano da quella terribile mattina di settembre di dodici anni fa.

Al tramonto di ieri, la griglia di viali alberati del centrale e signorile quartiere di Back Bay, solitamente affollata di auto e di pedoni anche nelle serate invernali più gelide, (e particolarmente vivace nelle serate di festa) era una gigantesca, silenziosa e deserta “scena del crimine” chiusa da barriere, transenne e i classici nastri gialli con scritto “Police Line Do Not Cross”, (Cordone di Polizia: Limite Invalicabile) tirati da un semaforo all’altro. All’interno solo poliziotti, soldati e membri, armati, della Guardia Nazionale: unica eccezione, a rendere il tutto ancora più surreale, gli ufficiali della maratona che presidiavano mucchi di sacche numerate contenenti effetti personali dei maratoneti i quali, bloccati nel mezzo della competizione e tenuti per ore – quando ancora non si sapeva bene cosa stesse succedendo - in luoghi sicuri lungo il tracciato, dovevano ancora recuperare.

“Oggi è cominciata male ed è finita peggio,” si lamenta infreddolito Luca Zani, venuto da Treviso per correre la sua seconda maratona di Boston, con ancora in dosso i pantaloncini e il pettorale mentre riprendendo le sue cose cerca di capire se la via per tornare in albergo sia o meno tornata accessibile: racconta di essersi svegliato con la febbre, di aver ceduto al 16esimo miglio e poi di essere stato tenuto in una chiesa, per ore, ad aspettare istruzioni sul da farsi. “E frustrante,” dice ma poi pensandoci un attimo conclude “ certo che stasera c’è gente che sta molto peggio di me.”

“Una Giornata così lascia in bocca un sapore davvero amaro,” gli fa eco Adriana Calabresi, atleta milanese alle prese con gli stessi problemi logistici del suo “collega” trevigiano. Alla sua prima maratona Bostoniana, anche lei, come molti dei 23,000 partecipanti alla manifestazione, è stata fermata a metà strada e dirottata in un centro di raccolta: “Uno viene qui per una festa dello sport e torna a casa col ricordo di una tragedia, non è giusto!”

Per ora le autorità non rilasciano alcun dettaglio sull’indagine in corso, un'indagine massiccia e capillare che coinvolge forze di polizia locali, statali e soprattutto vista la natura del crimine, federali; semmai le informazioni per ora vengono richieste ai cittadini, sollecitati a riportare qualsiasi indizio, o presunto tale, che possa aiutare ad individuare il responsabile (o i responsabili) dell’attentato. Importantissimo sarà, per l’America intera, scoprire chi e soprattutto perché’. Ma ancora più importante sarà per i Bostoniani, impedire che la tragedia, anzi l’incubo di ieri, a prescindere dai colpevoli e dalle loro motivazioni, li cambi per sempre.

Stefano Salimbeni

 
 
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