BOSTON - Coprifuoco! In tutta la città, compresi i sobborghi. Boston si sveglia con l’ordine di non uscire di casa, e di non aprire la porta se non a poliziotti in divisa. In corso una massiccia caccia all’uomo per catturare – e probabilmente uccidere - il secondo dei due sospetti autori dell’attentato di lunedì scorso alla maratona di Boston.
Il primo è stato ucciso nella notte dopo un’altrettanto drammatica
caccia all’uomo iniziata nel campus del Massachussets Institute of
Technology (MIT) con l’uccisione di un agente, poi una fuga in
macchina verso il sobborgo di Watertown e uno scontro a fuoco reso
ancora piu’ rischioso dal fatto che l’attentatore avesse su di sé un
congegno esplosivo – il tutto, praticamente in diretta TV sull’affiliato locale del network NBC.
I due – identificati come Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, due fratelli Ceceni di 26 e 19 anni (il secondo dei quali sarebbe ancora in fuga) probabilmente integralisti islamici – erano stati già inchiodati dalle immagini diffuse dall’FBI ieri pomeriggio e indicati come i possibili autori dell’attentato. Le migliaia di foto scattate e video girati da privati del giorno della maratona hanno fatto il resto. Il cerchio si è chiuso intorno ai due in poche ore e al momento il timore di autorità e cittadini è che come spesso accade in questi casi il terrorista braccato scelga di farla finita nel modo più distruttivo ed eclatante possibile.
…e un settimana cominciata con un insospettato bollettino di guerra è destinata a concludersi sulle stesse drammatiche note.
Stefano Salimbeni
Carlo Nesti, noto giornalista, ha pubblicato sul suo blog "Sport e
cristianità" questa commovente lettera al piccolo Martin, 8 anni,
ucciso nell'attentato alla maratona di Boston mentre, sulla linea del
traguardo, aspettava l'arrivo del padre al termine della corsa. La
ripubblichiamo.
Ciao! Sono Martin. Martin chi? Ma Martin Richard, il bambino della maratona di Boston!
Ora sono Qua, in Alto, dove non mi vedete, ma dove so di restare bambino in eterno, se lo voglio, senza che nessuno possa impedirmelo. E sono Qua, in Alto, dove, pur essendo ancora piccolo, mi è tutto chiaro, senza bisogno di domande per mamma e papà.
Certo che, quando sono sceso fra voi, accidenti... pensavo di tenervi
compagnia un pochino di più! Otto anni... Solo 8 anni... Però, che ne
dite? Forse, per come stanno andando le cose, mi sono perso poi un
granché? Mah...
Io ci ho provato a dare il mio contributo! Nessun uomo può cambiare, da
solo, il “grande mondo”. Tutti, però, possono cambiare, da soli, il loro
“piccolo mondo” individuale. Anche sbagliando, e cadendo, ma sempre con
il desiderio di rialzarsi, come chiede Gesù, che ci perdona.
E il mio contributo era quel cartello: “Basta fare male alla gente,
pace!”. Ne ero orgoglioso, sapete? Era la prima volta, in cui mi sentivo
importante non, unicamente, per mamma e papà, ma pure per gli altri. Ho detto la prima volta. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima.
Ma ora, Quassù, sono felice, perché so quanto è stato buono il Creatore
nel non imporci nulla, e lasciarci liberi di diventare ciò che vogliamo.
E nella libertà, inevitabilmente, puoi incrociare chi, disprezzando la
propria vita, disprezza quella degli altri.
So che giù, da voi, è difficile accettarlo. Anche io piangevo, quando un
amichetto mi portava via un giocattolo. Quando perdevo qualcosa, che
sentivo mio.
Ma Quassù tutto è mio, e “mio” è “tutti”. Non si litiga più. Qui è Gioia Assoluta.
Avete presente l’esultanza straripante di papà, nel tagliare il
traguardo della maratona, e magari vincere, mentre vincono anche tutti
gli altri?
Ecco: io mi sento così sempre! E un miliardo di un miliardo di volte
ancora di più! Vi auguro di capire che dovete lottare, ogni giorno della
vostra vita, per questo traguardo. Credetemi: ne vale la pena!
Carlo Nesti
Segui Carlo Nesti su www.carlonesti.it
Boston - “Finiremo la corsa, come quell’atleta 78enne con la
casacca arancione, caduto pochi metri prima del traguardo, sbilanciato
dalla prima bomba … ci rialzeremo, e finiremo la corsa.” Così dalla
cattedrale di Holy Cross a Boston, Obama incoraggia e rincuora una città,
e una nazione intera, al termine del servizio di preghiera
multiconfessionale in memoria delle vittime dell’attentato che lunedì
scorso ha causato 3 morti e oltre 170 feriti tra gli spettatori e gli
atleti della maratona. E riassume il sentimento di una nazione intera
che anche in questo caso reagisce stringendosi attorno alle vittime e
dichiarando, all’unisono, più unita che mai di non aver nessuna
intenzione di arrendersi davanti al terrorismo, interno o internazionale
che sia.
“Avete sbagliato città, ormai dovrebbe essere chiaro,” dice poi
rivolgendosi – chiunque essi siano - agli autori del massacro, il cui
bilancio oltre ai tre morti include una decina di amputazioni e almeno
venti persone attualmente in prognosi riservata: un gesto ancora non
rivendicato e che aggiunge il Presidente citando la madre di una delle
vittime, “non ha assolutamente alcun senso”.
La città, nelle parole di Obama, è quella “sbagliata” perché’ fin dai
primi minuti ha dimostrato una solidarietà e una risolutezza nel
reagire che non lascia dubbi sul fatto che un attentato così vigliacco
invece di intimidire i suoi abitanti li rende paradossalmente più
coraggiosi e determinati nell’affermare e nel vivere quei valori civici
che come ha detto il governatore Deval Patrick prima di lasciare il
pulpito a Obama: “uniscono questa nazione più della lingua la cultura o
la religione.”
Di fatto la città – una città i cui i vialoni del passeggio e dello
shopping sono diventati praticamente una zona di guerra - ha risposto in
massa, con migliaia di bostoniani che hanno sfidato l’ora di punta
appesantita sia dai posti di blocco, e i mezzi paramilitari accorsi da
tutto lo stato sia dai camion e dagli accampamenti delle televisioni di
tutto il mondo, per mettersi in fila disciplinatamente fuori dalla
Chiesa e unirsi ai loro leader politici (di tutti i partiti - oltre al
presidente, c’erano il sindaco il governatore attuale e i 4 precedenti
tra cui Mitt Romney,) e a quelli spirituali (di tutte le confessioni
compreso l’arcivescovo Sean O’Malley), in un rito tanto religioso quanto
civile, in cui preghiera, solidarietà e determinazione diventano un
potente e catartico tutt’uno.
“Sono qui in fila dalle sette, ” dice Anna Drennan, una donna di
mezza età dalle fattezze inconfondibilmente irlandesi, venuta qui
dall’estrema periferia Sud. “Non conoscevo nessuno direttamente
coinvolto ma questa è la mia città: dovevo esserci!”. In fila con lei e
tanti altri residenti DOC anche moltissimi Bostoniani d’adozione come
Adam Vandersluis, barba fitta da intellettuale, originario del Minnesota
impiegato in una non-profit con sede nel centro città. “Parte di me è
qui per curiosità dice ma fondamentalmente voglio testimoniare la mia
solidarietà a questa gente, dopo tutto potrebbe succedere ovunque.”
Poi c’è Sidra Mahmood, pakistana, ricercatrice al Massachusetts
General Hospital (dove molte delle vittime sono ricoverate) viso
dolcissimo avvolto da un hijab multicolore: “Sono qui per dimostrare
che di fronte al terrorismo siamo tutti uguali, tutti uniti nella
condanna e nell’oltraggio,” dice con il timore, dichiarato, che i fatti
di lunedì riaccendano i focolai di intolleranza anti araba e anti
islamica che seguirono i fatti dell’11 settembre.
“Boston è la vostra città” ha detto Obama rivolgendosi alla
congregazione e alle autorità locali riunite in cattedrale “ma è anche
un po’ la nostra, di quelli che come me ci sono venuti e ci vengono a
studiare, a lavorare o a farsi curare negli ospedali, ad imparare da
turisti la storia americana o a partecipare ai tanti eventi – compresi
quelli sportivi. E quando la prossima squadra locale vincerà il
campionato di football, basket, baseball o hockey sono sicuro che alla
parata sarete tutti in strada, come sempre. E che la prossima maratona
sarà più grande più bella e più affollata delle ultime 117”
Insomma, a Boston, la corsa è già ripresa, e il prossimo traguardo – con
l’aiuto di migliaia di cittadini che stanno inviando le loro foto e i
loro video agli inquirenti – è trovare i colpevoli e portarli, come ha
detto Obama con gli occhi sì lucidi ma anche fissi al centro dell’
inquadratura, prima possibile avanti alla giustizia.
Stefano Salimbeni
Due esplosioni a 15 secondi e a cento metri di distanza l’una dall’altra: e la festa si trasforma improvvisamente in tragedia. Tre
i morti accertati, oltre 150 i feriti, una ventina molto gravi, e la
probabilità’ alta, come sempre in questi casi, che il bilancio lieviti
col passare del tempo. Tutti tra gli spettatori - e gli atleti –
convenuti nel centro di Boston per la maratona più antica e prestigiosa
d’Amerca, uccisi, mutilati o semplicemente – si fa per dire - feriti
in prossimità della linea del traguardo, ovvero nel punto più affollato
dei 42 chilometri di tracciato, dove appassionati, giornalisti e curiosi
si accalcano per cogliere l’entusiasmo non solo dei vincitori ufficiali
ma anche e soprattutto della gente comune, dei corridori della domenica
nel momento più bello, quello in cui vincono la sfida con se stessi.
Due ordigni, dunque, piazzati con l’intento chiaro e premeditato di
uccidere e di fare del male a più persone innocenti possibile. E con queste premesse si va oltre la tragedia: la festa in questo caso si trasforma in un incubo.
Il giorno in cui si corre la maratona, a Boston, si chiama “Patriot Day”
– ovvero il giorno in cui la culla della rivoluzione americana si ferma
(unica città negli USA ad avere per questo il giorno di ferie) per
ricordare – con tanto di rievocazioni storiche in costume dove abbondano
salve di cannone e di moschetto - gli eventi del 19 Aprile 1775,
quando le truppe regolari inglesi e i coloni stanchi di dipendere dalla
corona si fronteggiarono militarmente per la prima volta dando inizio a
quella rivolta che sfocio poco più di un anno dopo il 4 luglio 1776
nell’indipendenza dall’impero britannico.
Qui lo chiamano “the shot heard around the world” (lo sparo udito dal mondo intero).
Ieri, 238 anni dopo, paradossalmente è successa la stessa cosa: il botto delle 14:50 è rimbalzato immediatamente in tutto il globo risvegliando immediatamente lo spettro del terrorismo
quando gli americani cominciavano quasi a non pensarci più. La
conferma che di terrorismo (interno o internazionale che sia) si
trattava è arrivata 15 secondi dopo, a 100 metri di distanza, rafforzata
dalla notizia di un terzo dispositivo trovato e disinnescato in un
albergo adiacente.
Proprio come l’11 settembre 2001, solo che in questo caso non servivano i
minuti intercorsi tra i due aerei dirottati sulle torri del World Trade
Center per attirare l’attenzione dei media. I media all’arrivo della
maratona (la numero 117) c’erano già e hanno ripreso tutto in diretta,
compresi gli atleti confusi che invece di correre verso il traguardo
cambiavano direzione per salvarsi la vita.
Stavolta però in quelle esplosioni non c’era nessun eroismo: solo una
vigliaccheria e una cattiveria senza fine. Tra le vittime c’è un bambino
di 8 anni con l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento
sbagliato. Ma vittima dell’attentato di ieri è un'intera città che dal
terrorismo pensava – o sperava - di essere immune e che oggi si
risveglia teatro del peggior attacco su suolo americano da quella
terribile mattina di settembre di dodici anni fa.
Al tramonto di ieri, la griglia di viali alberati del centrale e signorile quartiere di Back Bay,
solitamente affollata di auto e di pedoni anche nelle serate invernali
più gelide, (e particolarmente vivace nelle serate di festa) era una
gigantesca, silenziosa e deserta “scena del crimine” chiusa da barriere,
transenne e i classici nastri gialli con scritto “Police Line Do Not
Cross”, (Cordone di Polizia: Limite Invalicabile) tirati da un semaforo
all’altro. All’interno solo poliziotti, soldati e membri, armati,
della Guardia Nazionale: unica eccezione, a rendere il tutto ancora più
surreale, gli ufficiali della maratona che presidiavano mucchi di sacche
numerate contenenti effetti personali dei maratoneti i quali, bloccati
nel mezzo della competizione e tenuti per ore – quando ancora non si
sapeva bene cosa stesse succedendo - in luoghi sicuri lungo il
tracciato, dovevano ancora recuperare.
“Oggi è cominciata male ed è finita peggio,” si lamenta infreddolito Luca Zani,
venuto da Treviso per correre la sua seconda maratona di Boston, con
ancora in dosso i pantaloncini e il pettorale mentre riprendendo le sue
cose cerca di capire se la via per tornare in albergo sia o meno tornata
accessibile: racconta di essersi svegliato con la febbre, di aver
ceduto al 16esimo miglio e poi di essere stato tenuto in una chiesa, per
ore, ad aspettare istruzioni sul da farsi. “E frustrante,” dice ma poi pensandoci un attimo conclude “ certo che stasera c’è gente che sta molto peggio di me.”
“Una Giornata così lascia in bocca un sapore davvero amaro,” gli fa eco Adriana Calabresi, atleta milanese alle prese con gli stessi problemi logistici del suo “collega” trevigiano. Alla
sua prima maratona Bostoniana, anche lei, come molti dei 23,000
partecipanti alla manifestazione, è stata fermata a metà strada e
dirottata in un centro di raccolta: “Uno viene qui per una festa dello sport e torna a casa col ricordo di una tragedia, non è giusto!”
Per ora le autorità non rilasciano alcun dettaglio sull’indagine in
corso, un'indagine massiccia e capillare che coinvolge forze di polizia
locali, statali e soprattutto vista la natura del crimine, federali;
semmai le informazioni per ora vengono richieste ai cittadini,
sollecitati a riportare qualsiasi indizio, o presunto tale, che possa
aiutare ad individuare il responsabile (o i responsabili)
dell’attentato. Importantissimo sarà, per l’America intera, scoprire chi
e soprattutto perché’. Ma ancora più importante sarà per i Bostoniani,
impedire che la tragedia, anzi l’incubo di ieri, a prescindere dai
colpevoli e dalle loro motivazioni, li cambi per sempre.
Stefano Salimbeni