Ebbene sì, si contesta anche il calcio, quando si ha fame (di cibo, di giustizia) e lo si contesta anche in Brasile. Il primo stupore è assoluto, il secondo, diciamo. è relativo: lo stupore di una commedia va in scena nel teatro teoricamente più sbagliato e che proprio per questo ha un successo “di contrasto” straordinario.
I fatti sono persino semplici. Si gioca in sei stadi brasiliani la Confederations Cup, manifestazione da poco ufficializzata, ospitata dal paese che l’anno seguente ospita i Mondiali, e utile per collaudare gli impianti, l’organizzazione, i trasporti, la ricezione, nonché per mettere sul gusto la gente eventualmente indifferente. Partecipano le squadre campioni delle varie confederazioni internazionali, che non corrispondono sempre ai continenti, la squadra del paese che ospita e la squadra campione del mondo uscente. Così c’è la Spagna (che libera un posto per l’Italia vicecampione europea), ma c’è anche Tahiti espressa dal calcisticamente povero “bacino” oceanico. Non ci sono fra le otto partecipanti Argentina e Germania, per dire del profilo magro della manifestazione, che pure ha una vasto respiro geografico.
Accade che invece di danzare il samba collettivo per celebrare i successi iniziali facili del Brasile, la gente locale contesta il torneo, opponendo alle alte spese organizzative, comprese quelle per nuovi stadi meno caldi di quelli vecchi, il dissanguamento che ogni brasiliano patisce, alla faccia del boom economico ufficiale, per aumenti anche minimi ma costanti, “corrosivi”, del costo della vita, e scadimento dei servizi vitali: i trasporti, i medicinali, l’istruzione. Con la corruzione sempre più grande a deridere con la sua opulenza per pochi i bisogni dei poveri, che – toh - sono sempre molti, sempre troppi.
Tifare contro il Brasile perché...
La contestazione parte dalle folle teoricamente richiamate dal calcio
che si gioca sottocasa e sensibilizzate dai suoi eccessi, ma esplode
anche a San Paolo, la megalopoli che non ospita manco una partita. E’
protesta proletaria, ma coinvolge il Governo brasiliano che è
connotatissimo a sinistra. Non viene repressa anche perché il Governo
dice che i manifestanti hanno ragione o almeno non hanno torto, e dilaga
fuori dalla mappatura locale della Confederations Cup.
Il presidente
della Fifa, la federazione mondiale, lo svizzero Joseph Blatter, il
grande cinico banchiere dell’ente pallonaro, dice che il calcio comunque
è superiore ad ogni protesta sociale: secondo lui è sempre anzi sempre
più medicina, oppio, tranquillante, nutrimento dei popoli. Il terrore è
che abbia ragione Blatter (lo stesso Pelé la pensa quasi come lui, Pelè
il nero che funziona da zio Tom dei bianchi…). Aveva comunque ragione,
Blatter, sino a poco tempo fa: e proprio in Brasile potrebbe cominciare
il suo storico avere torto.
Aveva ragione lucidando il calcio mai
usato dal terrorismo, che pure usò brutalmente i Giochi olimpici (Monaco
1972), il calcio capace di guarirsi dal male dell’hooliganismo, la
violenza giovanile, con pochi provvedimenti esemplari, capace anche con i
suoi campionati del mondo di sovrapporsi (Argentina 1978) ai diciamo
imbarazzi per i crimini della dittatura locale, di ignorare le proteste
da fame (Messico 1986) delle genti disperate di una città satellite
della capitale, e in chiave europea capace (1952) di ridurre a folklore
le proteste delle donne ucraine contro un campionato continentale che in
loco ha voluto dire aumento della prostituzione e della mercificazione
dell’altra metà del cielo. Chissà adesso.
Vien voglia di tifare contro
il Brasile non perché gioca contro l’Italia l’ultima partita di un
girone eliminatorio dove, qualificati noi e loro, chi finisce secondo
va ad affrontare in semifinale la fortissima terrorizzante Spagna:
tifare contro il Brasile se i suoi successi spengono le proteste dei
poveri e i loro diritti, se tutto torna come prima, basta un gol di
Neymar la nuova stella.
C’è il rischio che alla fine vinca ancora
Blatter. Intorno alla Confederations Cup si agita un mercato dei
calciatori dove i guadagni più folli dei bipedi d’oro sono ancora
linimento alle piaghe da povertà, balsamo indiretto per chi si riempie
il cuore e la testa con il pensiero devoto e ammirato della ricchezza
altrui, da bravo povero coerente con la sua storia poveraccia. Illustri
economisti dicono che è normale questa agitazione generata dal primo
piccolo benessere di una nazione che ormai fa parte dei nuovi giganti
del mondo, agitazione espressa da voglie subito troppo grandi, smodate,
sproporzionate (come gli indiani e i cinesi, fratelli di “boom”, quando
si permettono di avere fame e non di solo riso). E magari brutte e
cattive se sporcano il totem del pallone, se si appoggiano ad esso
rischiando di guastarlo. Arrivano a dirci che tutto era prevedibile, se
non ce lo hanno detto chiaramente prima della manifestazione è stato per
non allarmarci, o per non toglierci il gusto della scoperta…
Chiunque vinca la coppa, è importante che non abbia ragione Blatter. Se
necessario, serve anche una intemperanza di Balotelli. Forza Mario.
P.S.: e per chi vuole giocare al gioco del futuribile, proponiamo lo scenario di Rio de Janeiro 2016, quando ci saranno i Giochi olimpici tra posti di sogno e favelas probabilmente eterne, con masse di spettatori e di gare e di atleti e di giornalisti e di problemi organizzativi assai superiori a quelli per un Mondiale di calcio, ancorché giocato nella terra eletta del pallone. Restando al pallone, altro gioco del futuribile riguarda i Mondiali del 2022 (quelli del 2018 saranno in Russia), che Blatter ha dato al Qatar, dove non ci sono stadi, non ci sono pubblici preparati, non ci sono precedenti calcistici ma ci sono tantissimi soldi.