È la storia perfetta dell’economia che uccide, della globalizzazione infame, del commercio nefasto che asfissia i popoli e scortica la natura. È la storia di una miniera di ferro, la più grande al mondo, e di un pugno di uomini, donne e preti che si sono opposti all’aggressione della vita, consapevoli che la sfida è globale. È una storia brasiliana e italiana. Perché il ferro della miniera di Carajas, Stato di Maranhão, finisce all’Ilva di Taranto. Ecco perché papa Francesco insiste da quattro anni sul volto brutale dell’economia. L’ha scritto nella Laudato si’ e l’ha ripetuto giorni fa in un messaggio ai vescovi brasiliani per la Campagna della fraternità, denunciando «l’aggressione al creato di Dio in ognuno degli ecosistemi brasiliani».
Non è facile, eppure loro ci sono riusciti e la denuncia del bottino della vergogna di una delle più grandi multinazionali, la Vale do Rio Doce, brasiliana, seconda al mondo per estrazione di ferro, prima pubblica e poi svenduta nei piani di privatizzazioni selvagge del Governo Cardoso a metà degli anni Novanta, sta facendo aumentare la consapevolezza che invoca Bergoglio e intanto rimette al centro il ruolo delle popolazioni locali.
Ci sono due missionari comboniani italiani alla testa di un movimento popolare che marca stretto la grande industria estrattiva. Padre Dario Bossi di Samarate (Varese) e fratel Antonio Soffientini di Merate (Lecco). Lavorano nella parrocchia di Santa Luzia a Piquiá de Baixo, barrio di Açailândia, una delle città lungo la Estrada de Ferro Carajás, la ferrovia di novecento chilometri di sofferenza e lacrime tra il più ricco giacimento di ferro del mondo e il porto di São Luís.
Spiega padre Dario: «Passa un treno ogni 25 minuti, lungo quattro chilometri, tre locomotive, 300 vagoni, 80 tonnellate per vagone, valore del minerale trasportato ogni giorno da 20 a 30 milioni di dollari, mentre la gente che lo guarda passare vive con cinque dollari al giorno se va bene». La metà finisce in Cina, una parte in Giappone, negli Stati Uniti e in Italia. Nel bacino della ferrovia, che ha tagliato la foresta, vivono due milioni di persone, nessun beneficio, solo dramma e tragedie. Da vent’anni la gente lotta contro la ferrovia, la miniera, l’industria siderurgica. Come a Taranto, anzi, peggio che a Taranto.
La lotta è cominciata a Piquiá de Baixo, dieci anni fa, sfida gigantesca, le comunità schiacciate dai soldi e dall’arroganza dell’industria. Ma 21 famiglie di Piquiá, che respirano polvere nera e soffocano di veleni perché qui si produce in 14 altiforni il “ferro dei porci”, la parte sporca della produzione per gli Usa, hanno detto basta e portato 21 denunce in tribunale. Racconta Joselma Alves de Oliveira: «Trent’anni fa la fabbrica ha promesso lavoro e benessere. Oggi abbiamo i polmoni bruciati». Ma il processo alla Vale s’ingarbuglia. Troppo potere all’industria, troppi funzionari in vendita nel Brasile della corruzione. Ma loro non mollano e allargano la base della lotta, altre famiglie e un’associazione comunitaria. Edward, un contadino disperato, scrive al presidente Lula. Che risponde. Per lui è una vittoria, perché se il presidente risponde allora loro hanno ragione. Ma non sa che fare. Alla radio una mattina ascolta un programma dove si parla di diritti umani, di rete panamazzonica di protezione dei popoli e della terra, di Vangelo e di giustizia. Sa che quella è la radio dei Comboniani e li cerca.
Così padre Dario e fratel Antonio entrano nella lotta di Piquiá. Organizzano un referendum: lottare o andar via? La gente vuole andar via. Loro dicono va bene, ma insieme, tutti insieme, prendendo in mano il destino. Comincia una trattativa con la Vale, le vittime da una parte e i dirigenti dall’altra. Vogliono una terra nuova per nuove case e non più quella nerissima delle loro abitazioni dove si consuma il delitto. L’industria dice no e loro bloccano la ferrovia, le strade, scalano la montagna dell’indifferenza. Portano la questione all’Onu a Ginevra e a Washington all’Organizzazione degli Stati americani, padre Dario e fratel Antonio la raccontano in Vaticano a papa Francesco a cui regalano la maglietta della lotta di Piquiá. Ce la fanno: l’industria cede, un po’ di soldi li promette Brasilia, ma è ancora una promessa, in tutto 9 milioni di euro, nemmeno la metà di un carico di un giorno del treno della devastazione. A Piquiá arriva l’Istituto dei tumori di Milano che certifica la tragedia: un terzo degli abitanti soffre di gravi patologie polmonari, come a Tamburi di Taranto con il quale intanto si sono gemellati.
Si chiamano Legami di ferro, titolo di un libro dell’attivista italiana di Peacelink Beatrice Ruscio che è andata a vedere e ha raccontato il disastro globalizzato. Adesso padre Dario e una rappresentanza di abitanti sono tornati all’Onu e in Vaticano, perché non si fidano. Occorrono altre pressioni, occorre più diligenza per smascherare il greenwashing, una sorta di lavaggio verde della coscienza a cui l’industria si dedica piantando qualche albero qui e là e promettendo filtri e aria più pulita.
Al cardinale Peter Turkson hanno spiegato il trucco delle imprese falsamente virtuose: «Cercano la Chiesa per avere mediatori con la gente, per poi continuare come sempre. In Vaticano abbiamo spiegato che bisogna occuparsi delle vittime». Il tema dei disastri delle attività estrattive è strategico e cruciale nella promozione dei diritti umani. Oggi chi tocca l’industria mineraria muore. L’anno scorso solo in Brasile sono stati assassinati 50 attivisti ambientali, martiri della madre Terra, tutti caduti nella lotta contro l’estrazione feroce dei metalli controllata dal grande capitale.
Foto Reuters