Londra (Regno Unito).
Mentre battevano le ore sull’immagine di Big Ben proiettata su Downing Street, verso quella mezzanotte italiana che ha segnato per sempre l’inizio di Brexit, centinaia di volantini raggiungevano le cinquecento parrocchie cattoliche di tutta la Scozia. «Dobbiamo sensibilizzare la comunità», spiega Ronnie Convery, console italiano onorario di Glasgow e portavoce dell’arcivescovo Philip Tartaglia. «Ci sono migliaia di europei, tra cui molti italiani, che non hanno ancora fatto domanda di “settled status”, il visto necessario per rimanere dopo Brexit, e potrebbero trovarsi in difficoltà dopo il periodo di transizione». Per collegare il passaporto a quel numerino, che consente di circolare liberamente tra Gran Bretagna e Ue, bisogna completare una domanda complessa che comporta l’uso di un telefonino e della posta elettronica. Troppo complicato per chi è avanti nell’età. È una delle tante assurdità di questa separazione, dopo quarantasette anni e un mese di storia comune. Persone arrivate in queste isole giovanissime, sposate con cittadini britannici e figli nati qui, grandi lavoratori che hanno sempre pagato le tasse minacciati di deportazione. Anche se il ministro per la sicurezza del governo di Boris Johnson, Brandon Lewis, che ha fatto balenare questa possibilità, qualche settimana fa, ha dovuto poi rimangiarsi le sue parole tra le proteste generali.
«Lo stato scozzese sta collaborando da vicino con la Chiesa cattolica e con il consolato italiano per raggiungere migliaia di italiani, polacchi, francesi, spagnoli, usando la rete di parrocchie per aiutarli a mettersi in regola», continua Convery. Londra contro Edimburgo. Colti contro ignoranti. Vecchi contro giovani. Città contro campagna. Ricchi contro poveri. Brexit, per tre anni e sette mesi, ha spezzato a metà il Regno Unito, con episodi di xenofobia, l’omicidio della parlamentare Jo Cox, le centinaia di denunce per attacchi violenti di parlamentari che si sono poi ritirati dalla vita politica.
«I vescovi cattolici e anglicani erano contrari all'uscita dall'Ue»
«La maggioranza dei vescovi cattolici e anglicani erano contrari a Brexit, fin dall’inizio, memori delle origini cattoliche dell’Unione Europea», spiega a Famiglia Cristiana Luke Coppen, direttore del settimanale cattolico Catholic Herald, molto seguito tra i circa cinque milioni di britannici fedeli a Roma, «Sono rimasti, però, inorriditi dalla violenza che il voto del referendum del 23 giugno 2016 ha scatenato in questo paese e hanno concluso che il distacco dalla Ue era inevitabile. Nelle loro dichiarazioni, sia il leader cattolico, il cardinale Vincent Nichols, che quello anglicano, il Primate Justin Welby, hanno espresso la speranza che il tono del dibattito pubblico migliori e le ferite si possano rimarginare. Anche se sembrano scettici sul fatto che Boris Johnson saprà affrontare i problemi sociali più profondi del Regno Unito».
Un desiderio di pace che si sente anche nelle parole dell’arcivescovo di Glasgow di origini italiane Philip Tartaglia. «Sono uno scozzese italiano. Mio papà era di Picinisco, vicino a Frosinone. Mia mamma era nata in Scozia da genitori italiani di Lucca. Sono un cittadino europeo. Ho grande affetto per l’Italia e per l’Europa», racconta monsignor Tartaglia, «Come cristiano posso dire che siamo una cosa sola in Cristo e che il desiderio di unità è piantato profondamente nell’animo umano. Non ci deve essere isolazionismo e mancanza di amicizia, tanto meno elitismo o razzismo, tra i paesi europei. Dobbiamo vivere insieme, lavorare insieme, commerciare insieme, rendere l’Europa e il mondo intero un posto migliore».
Ci sarà una Scozia indipendente? Secondo sir Tom Devine, cattolico, il più famoso storico contemporaneo a Nord del vallo di Adriano l’incognita più grande è lo status di questa regione, se si stacca dal resto del Regno Unito e rimane anche fuori dalla Ue. «Che cosa faremo, in termini di commercio e reazioni diplomatiche, se il referendum sull’indipendenza viene vinto, quest’anno o l’anno prossimo, dai nazionalisti e rimaniamo staccati sia dal Regno Unito che dalla Ue? Siamo un piccolo paese di appena cinque milioni di abitanti», si chiede l’esperto.
Il tema immigrazione si preannuncia molto spinoso
Certo il futuro del Regno Unito, della Scozia e dell’Unione Europea si giocherà sul tema dell’immigrazione. Già cominciano a mancare quegli infermieri e quei dottori – per non parlare di altri lavoratori più umili – che arrivavano qui da tutta Europa e tre anni fa hanno smesso di venire. «Chi ha votato Brexit ha voluto dire no ai migranti ma il nostro mercato del lavoro ne avrà sempre bisogno», spiega Stephen Timmons, docente di Sociologia della salute e della malattia all’università di Nottingham, «I nostri studi dimostrano che il numero di infermieri e dottori in arrivo dalla Ue è crollato perché non si sentono più benvenuti. Eppure ne abbiamo un disperato bisogno. Dubito che un sistema d’immigrazione che privilegi le ex colonie britanniche, rispetto all’Europa, voluto, tra altri, dal sottosegretario agli interni Priti Patel, risolverebbe il problema perché ci troveremmo a competere con il resto del mondo».
«Bang a bob for a bing bang bong, Tirate fuori una sterline per un grande rintocco di Big Ben». Cosi, due settimane fa, il premier Boris Johnson aveva invitato i cittadini a contribuire con una raccolta fondi a quel mezzo milione di sterline che ancora ci vogliono per completare il restauro della torre dell’orologio più famosa del mondo. È stato subito zittito dal parlamento. Impossibile raccogliere 600.000 euro in cosi breve tempo e, in ogni caso, questa spesa pubblica tocca allo stato e non alle persone comuni. Un pessimo inizio per i negoziati britannici più importanti del Dopoguerra che Johnson vuole conclusi il prossimo dicembre.
«Il premier propone alla Ue un accordo commerciale stile Canada, dove la maggior parte delle tariffe sulle merci non esistono più, i prodotti made in Europa sono protetti e qualifiche professionali riconosciute tra i due paesi», annuncia la Bbc, «ma l’Unione Europea ha già annunciato che le trattative saranno lunghe e complicate e venderà cara la pelle. Non vuole certo dare vita a un avversario commerciale a soli trentaquattro chilometri (questa la distanza tra il nord della Francia e il sud d’Inghilterra nel punto più stretto della Manica)». Per Mary Kenny, irlandese, famosa giornalista e scrittrice, a prevalere sarà il tradizionale pragmatismo britannico e un desiderio di lasciarsi alle spalle il conflitto di questi anni.
«L’Irlanda è incatenata geograficamente e culturalmente al Regno Unito e non vedo come un confine vero che la separi dal Regno Unito per fermare l’arrivo degli europei possa funzionare», dice, «non credo che i falchi del governo che vogliono chiudere le frontiere all’Europa avranno la meglio e, mentre ascoltavo le parole positive e intelligenti della presidentessa della Commissione europea Ursula von der Leyen, mi convincevo che una via d’uscita positiva che mantenga aperte le frontiere verrà trovata».