La slam-dunk nel linguaggio universale del basket è la schiacciata a due mani che rende popolari i giocatori di dell’Nba, il gesto sognato dai bambini che giocano a pallacanestro nei campetti del mondo. Slums Dunk suona esattamente nello stesso modo, ma allude agli slums, i quartieri degradati delle periferie. Ed è il nome di un progetto che, forse, rappresenta la schiacciata più bella di Bruno Cerella, fino allo scorso anno ala piccola della Reyer Venezia, ora alla Blu Basket Treviglio, uno che di giocate belle in campo ne ha fatte abbastanza da vincere tre scudetti tra Milano e Venezia, tre coppe Italia, una Supercoppa e una Fiba Eurocup. Basta parlargli del resto, per capire che Bruno Cerella pur innamorato perso della palla a spicchi, non è uomo che viva di solo campo. Non per caso nell’ambito di Slums Dunk domenica 18 settembre sarà a Milano a presiedere il primo torneo sul playground Stelvio, riqualificato da Slums Dunk e inaugurato un anno fa, nei giardini di Viale Stelvio angolo Via Paolo Bassi. Il torneo, il primo dalla rinascita del campo, è organizzato con Underdog da Odv Slums Dunk, la Onlus co-fondata una decina d’anni fa da Bruno Cerella e Tommaso Marino per portare la pallacanestro in luoghi in cui ai bambini è difficile conquistarsi il diritto allo studio e al gioco, e invita ragazzi e ragazze a sfidarsi domenica a canestro a Milano per finanziare l’associazione.
Cerella, Slums dunk, ha una lunga storia importante. Che cosa l’ha convinta a buttarsi in questa avventura di condivisione della pallacanestro?
«Semplicemente la voglia di dare indietro qualcosa allo sport: lo sport ha creato una grande opportunità nella mia vita e questo è il mio modo di ringraziarlo per tutto ciò che ho avuto. Quando ero piccolo in Argentina ho letto un libro che mi ha ispirato: “El despertar del lider”, il risveglio del leader. Con Marino, all’epoca giocavamo vicini, ci siamo trovati a cena. Gli ho parlato della mia idea nata da un viaggio in Kenya nel 2011, gli è piaciuta subito e abbiamo deciso di partire insieme per la prima esperienza. Nel 2014 abbiamo costruito un campo di pallacanestro nella baraccopoli Mathare, la più estesa di Nairobi. Dopo tutto ha avuto il suo percorso. Ma è stata l’esperienza iniziale a farci comprendere dove volevamo andare, ossia creare dei punti di riferimento sociale, creando delle basketball academy, con allenatori formati da noi, con campi di pallacanestro costruiti da noi, con la possibilità di coinvolgere tanti bambini e bambine che non si possono permettere di fare sport nelle zone più degradate del mondo (dove tra l’altro saperci fare con lo sport può anche essere l’unica strada per avere l’opportunità di ottenere borse di studio in prestigiose scuole diversamente inaccessibili (ndr.)».
Che cosa succede a Milano domenica? Come si riconnette a tutto questo?
«Si riconnette perché lo sport ha prima di tutto un linguaggio universale, comune. Oggi la nostra visione con Slums Dunk è accorciare le distanze culturali del mondo attraverso lo sport: se vai in un Paese di cui non conosci la lingua sei perso, se vieni a giocare in un campo Slums Dunk puoi giocare ugualmente perché il linguaggio comune è dato dalla palla, dal campo, dalle regole del gioco. Il campo di Milano ha una grafica molto significativa perché da una parte c’è il duomo di Milano, dall’altra ci sono i colori del Kenia la nostra prima Basketball Academy, anche questo è un modo per unire il mondo attraverso lo sport. Il torneo di domenica 18 settembre, in cui giocheremo dalle 9 a tarda sera, ha lo stesso obiettivo che abbiamo negli altri Paesi: promuovere il valori per la vita attraverso lo sport».
Quando ha capito che quella palla e quel canestro avrebbero cambiato la sua vita?
«A 21 anni, quando dopo aver fatto due anni di esperienze nelle giovanili in Italia, mi sono reso conto di avere delle potenzialità cestistiche per fare sì che questo gioco diventasse una professione».
Che cosa ama di più di questo gioco?
«Da adulto oggi, direi la consapevolezza che vivere di sport è magnifico: alzarsi la mattina, andare in palestra, fare pesi con la musica, fare preparazione tecnica individuale, vivere in un modo sano, vivere in un mondo dove ogni tre quattro giorni hai una partita in cui metterti in discussione, dove ti puoi rialzare se vieni sconfitto, sentire salire l’adrenalina fisica a palla che comporta ogni gara, la sensazione di essere un punto di riferimento per tanti giovani, andare al palazzetto sapendo che ci sono migliaia di persone che tifano insieme a te per un risultato di squadra. Tutte queste cose sono ciò cui do più valore, a prescindere da quanto ho vinto e guadagnato. Lo sport da quel punto di vista è magnifico».
Questa cosa che racconta e ama non sarà all’infinito, quello che sta costruendo con Slums Dunk è anche il suo futuro dopo la pallacanestro?
«Sono straniero e l’Italia è il Paese che ho scelto per vivere anche dopo. A Slums Dunk dono il mio cuore e il mio tempo e anche dopo sarà il mio modo di restare legato alla pallacanestro, in un domani in cui non farò il dirigente sportivo o l’allenatore. Ma Slums Dunk di qui all’infinito sarà il mio modo di ringraziare lo sport per quello che ha dato a me».
Ci sono nuove stagioni di mezzo, ma a 36 anni questa vita dopo come la immagina?
«Ho già scelto quello che farò da grande, ho già creato i presupposti della mia vita fuori dal campo grazie alle mie iniziative personali e grazie al fatto che ho una famiglia che mi ha supportato in un percorso imprenditoriale. Ad oggi tutto questo mi permette di scegliere dove vivere: nella città di Milano e nel settore dell’edilizia, rappresentando io la terza generazione di una famiglia di costruttori».
Nel frattempo c’è un altro pezzo di campo: la stagione che sta per cominciare la vede passare dalla Reyer Venezia alla Blu Basket Treviglio. Ogni squadra che si cambia è un nuovo inizio, com’è rimettersi in gioco in una squadra nuova?
«Ogni passo della vita ha diversi obiettivi, in questo momento io ho firmato in una squadra che mi permette di giocare solo il campionato italiano, non volevo essere più impegnato nella doppia competizione campionato-coppa europea (che nella pallacanestro vuol dire un giochino da un’ottantina di partite a stagione ndr.), perché avevo bisogno di più tempo per me, per realizzare i miei progetti oltrelo sport giocato. Sono una persona che ha pensato sempre al futuro fuori dal campo».
Rarissimo nello sport.
«Vero rarissimo, ma molto bello: per questo mi piacerebbe essere di esempio per i giovani, perché comprendano che dire: “faccio sport non posso fare altro”, è una scusa, perché la vita dello sportivo è doppia, ha un domani da costruire oltre il campo e troppe volte uno sportivo che finisce la carriera agonistica si trova ad andare in depressione, a non gestire bene il patrimonio, a dover fare un cambio veramente tosto. In questa fase della vita sono felice di essere in una squadra competitiva, costruita per provare a vincere qualcosa, con tanti giovani davanti che mi creano stimoli: dovrò restare sempre in forma per correre come loro e avere la loro fame a livello cestistico. Perché dopo avere vinto tanto gli stimoli si potrebbero perdere, anche se per come mi conosco non è il mio caso. Giocare in una squadra come questa, con dietro un’organizzazione per cui vale la pena, però aiuta».
Ha messo tanto nel progetto Slums Dunk, che cosa vorrebbe aver lasciato di sé ai tanti ragazzi che hanno giocato in questi campi, magari senza conoscerla personalmente?
«A me piacerebbe semplicemente che i ragazzi delle zone degradate che vivono in povertà in luoghi disagiati possano prendere, come punto di riferimento sociale, il fatto che loro si possono lasciare affascinare dallo sport, perché possa essere una via di fuga dalla strada, dalla criminalità, dalle droghe e da tutti i rischi che si corrono nei posti difficili del mondo. E invece per i giovani benestanti che vivono in Italia in una situazione più semplice, spero che possano prendere l’esempio di ciò che significa fare qualcosa per gli altri: che non è solo essere quelli che portano progetti in giro per il mondo, ma essere un punto di riferimento per la società».