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mercoledì 25 giugno 2025
 
novità letterarie
 

Brunori Sas: «La paternità è un dramma colmo di gioia»

04/06/2025  Pubblichiamo la prefazione del cantautore al libro di don Massimo Granieri "Nella bocca del pescecane - Storie e canzoni dei padri miei" (Edizioni San Paolo). Un saggio in cui il sacerdote e critico musicale dell'Osservatore romano riflette su cosa significhi la paternità a partire dalla sua esperienza di figlio e dagli insegnamenti che ha ricevuto dai padri putativi musicali e letterari che ha incrociato nel suo cammino di fede

È un dramma ciclico la paternità, inizia con la paura e finisce con una gioia infinita. Nel corrersi dietro, la felicità di un amore che non chiede in cambio niente è inseguita dal timore di non riuscire a sostenerlo. La paternità è un dramma sempre, quando la vivi da figlio e quando la vivi da padre.

Che dramma dev’essere stata la paternità per i nostri padri, per il padre mio e per quello di don Massimo. Venivano da un mondo semplice, loro. Per loro essere padri era portare a casa la pagnotta, che da figli non sempre avevano avuto. Lavoravano, ti garantivano un tetto, un piatto pieno e un vestito, che cosa volevi di più? Noi siamo cresciuti in un altro mondo, un tetto un piatto pieno e un vestito per noi erano scontati. Ma ci mancava il senso. La nostra domanda loro non la capivano (o forse sì, ma non riuscivano a dirlo? Chissà). Così fra noi e loro si è scavato un fossato. Noi eravamo giovani, avevamo «l’incoscienza dentro al basso ventre/e alcuni audaci, in tasca “l’Unità”», come canta in Eskimo Guccini; così «la paghi tutta, e a prezzi d’inflazione/ quella che chiaman la maturità», prosegue Francesco.

Anch’io, come don Massimo, la maturità l’ho pagata a prezzi di inflazione: quanta fatica ho fatto per riscoprire mio padre! Quanta fatica ho fatto per scoprire «che io del mondo non c’ho capito niente», mentre «la risposta/ mio padre l’aveva messa lì in ufficio» (l’ho scritto in La vita pensata); «ma qualcuno l’ha nascosta», quella rispo- sta (sempre La vita pensata). Così, quanta fatica ho fatto per scoprire che la sua fatica, il suo lavoro, erano la sua ragione per stare al mondo, erano il suo amore per me. Che dramma dev’essere stato per i nostri padri vedere noi così lontani, come è stato un dramma per noi vedere così lontani loro. Che dramma è stato per me «quando tuo padre scompare/senza neanche avvisare/e senza fare rumore/senza darti un minuto per potergli dire/che gli hai voluto bene/e che ti manca da morire».

 

In queste pagine, don Massimo racconta con coraggio il suo rapporto con il padre, le incomprensioni, le lot- te, le avversioni, fino alla tentazione suprema (e lui è un prete! Ma allora è una tentazione che abbiamo tutti…) di rallegrarsi per la malattia del padre, per la sua mor- te vicina, vista come una liberazione. Ma poi racconta quella che a tutti gli effetti possiamo chiamare una “con- versione”, una svolta radicale, un cambiamento totale di mentalità, che ha portato anche lui a guardare a suo pa- dre con comprensione, con gratitudine, con nostalgia. E allora, come non sentire amico un uomo così, che vive i tuoi stessi drammi, e che ha il coraggio di non nascon- derli, ma di offrirli a tutti come un’ipotesi positiva per diventare compagni di cammino (vedi le pagine dedicate al Club dell’Orfananza)?

 

Poi, la paternità è un dramma anche quando la vivi da padre. Ne L’albero delle noci ho cercato di raccontare il timore e il tremore con cui vivo l’avventura della mia paternità, la paura di essere inadeguato davanti al dono di mia figlia Fiammetta, che ha tre anni e che mi guarda con uno sguardo che ha dentro un’attesa, una speranza infinita. Sarò all’altezza di quello sguardo?

 

Don Massimo è un prete, figli carnali non ne ha. Ma i suoi figli sono i suoi alunni: che è lo stesso ma forse più significativo, i suoi studenti sono i suoi figli. L’opera che sta incominciando a fare con loro è straordinaria. Da dove tira fuori don Massimo lo sguardo pieno di bene- volenza, con cui guarda quelli che i suoi colleghi giudi- cano “irrecuperabili”? Dall’esperienza di paternità che, racconta, ha vissuto con uomini grandi: con il nonno Francesco, con il suo vescovo (anche lui, guarda caso, di nome Francesco) con il suo amico Franco Nembrini (in realtà anche lui Francesco), che anch’io ho avuto l’occasione di conoscere.

Più di cent’anni fa, Péguy descrisse il padre come «questo avventuriero del mondo moderno», intuendo che quest’epoca avrebbe messo in discussione la figura del padre, ma un padre serve anche solo in senso metafo- rico: c’è bisogno di padri putativi. Se il rapporto con lui è difficile va bene, perché «il dolore serve/proprio come serve la felicità» (quando l’ho scoperto l’ho cantato ne La verità).

Allora, il libro di don Massimo è un grande amico per aiutarsi a riscoprire la bellezza e la grandezza della paternità. E per capire che la sua drammaticità non è un’obiezione, ma una componente fondamentale della bellezza della vita.

 

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