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sabato 10 giugno 2023
 
 

Hola, Pasqua nella città di Jorge

31/03/2013  Voci, analisi e commenti dalla capitale argentina di cui Jorge Mario Bergoglio è stato arcivescovo, una metropoli da 3 milioni di abitanti, che diventano 13 contando le aree limitrofe.

Mentre monsignor Mario Poli, 66 anni, uomo molto vicino a papa Francesco e già suo vescovo ausiliario, è stato chiamato alla guida dell'arcidiocesi di Buenos Aires, gli Argentini vivono i giorni della Pasqua, la prima in Vaticano per il loro amato Bergoglio, con un misto di euforia, emozione e in un certo senso anche di tristezza.

Sacerdoti e fedeli delle chiese della capitale si sentono, infatti,  un po’ orfani ora che l’uomo che è stato il loro pastore per quindici anni con dolcezza, passione e insieme

fermezza di intenti, si è spostato per sempre a Roma.

«Non tornerà tra noi prima di dicembre», dice con un velo di malinconia padre Gabriel Marronetti, parroco della Basilica di San Jose de Flores. «Speravamo di incontrarlo il prossimo luglio, quando sarà in America latina per la Giornata mondiale della gioventù. Lo aveva invitato per quelle date il presidente Cristina Kirchner, in occasione dell'incontro ufficiale in Vaticano. Purtroppo, in quegli stessi giorni, in Argentina ci saranno le elezioni  e non si vuole in alcun modo che qualcuno legga la sua visita nel Paese in chiave politica».


Padre Gabriel, 46 anni, conosce bene papa Francesco. La sua parrocchia si trova al centro del Barrio Flores, il quartiere dove è nato e cresciuto Jorge Mario Bergoglio, la stessa chiesa che il futuro Papa frequentava da bambino e da ragazzo. Un luogo per lui speciale, dove  da sempre ama ritornare.

«Stava passando davanti al nostro sagrato, durante una semplice passeggiata con un amico, quando Jorge Mario Bergoglio ebbe i primi segni della sua vocazione», continua padre Gabriel. «Sentì che qualcuno lo chiamava da dentro e lo invitava a entrare in questa chiesa per confessarsi. Oggi lui non ricorda il nome del sacerdote che lo confessò quel giorno. Del resto, aveva solo 17 anni. Pensa però ancora adesso con affetto a quel prete già anziano, con cui in seguito parlò a lungo e che ebbe una parte così importante nella sua vita».

Padre Gabriel ci mostra il confessionale, il primo a sinistra dall'altare, vicino al quale, ancora fino a pochi giorni fa, l'arcivescovo Bergoglio soleva fermarsi a pregare. «Veniva qui in parrocchia spesso. A volte mi cercava per parlare, ma  la maggior parte delle volte sostava da solo in preghiera. Si metteva in un angolo, sui banchi in fondo, come un comune fedele. Si metteva a pregare davanti all'immagine di San Josè (San Giuseppe), a cui è molto devoto».

Ci conferma che non è un caso che papa Francesco abbia scelto proprio il giorno dedicato a Giuseppe per l'inizio del suo Pontificato, il giorno del patrono, tra l'altro, del suo quartiere e di questa basilica che lo ha visto bambino. Dietro l'angolo, infatti, sta calle Membrillar 531, la palazzina oggi ristrutturata ed elegante, dove viveva la famiglia Bergoglio. A Buenos Aires già si chiede di dedicare questa via al nuovo Papa. E magari un viale. Per ora, però, non è possibile. Secondo una regola, le vie di Buenos Aires possono prendere il nome solo di persone decedute da almeno dieci anni. Si farà quasi sicuramente un eccezione per lui. Nel frattempo, dal 26 marzo esiste in Argentina, più precisamente a La Plata, una avenida Papa Francisco.

E proprio i viali, le strade, soprattutto quelle desolate delle villas, i quartieri poveri e periferici della città, erano i luoghi della predicazione dell’allora arcivescovo Bergoglio. E lì, per strada, che la gente sente la sua mancanza.

«Ci diceva sempre, uscite dalle chiese e andate ad aiutare la gente che ha davvero bisogno, gli indigenti, i sofferenti, i malati, i carcerati. La sua vuole essere una Chiesa viva, di strada, non burocratica né autoritaria, che guarda concretamente all'essere umano», spiega padre Gabriel. «E anche quando veniva a dire Messa in Parrocchia - e lo faceva ogni anno in occasione della festa di San Giuseppe - durante la predica scendeva dall’altare e si metteva in piedi in mezzo ai banchi dei fedeli. Doveva venire da noi anche quest'anno: lo abbiamo visto con emozione in televisione nella sua omelia su San Giuseppe, custode umile e fedele di Maria e Gesù». Il sacerdote estrae dal cassetto un album di foto, che ritrae proprio Bergoglio, in mezzo alla gente, nella navata. Ci mostra i suoi ricordi. 

E con orgoglio ci racconta i numeri della sua parrocchia, una delle poche di Buenos Aires dedicate alla riconciliazione e dove sono perciò presenti e disponibili a ogni ora del giorno sacerdoti confessori

«Ogni domenica da noi si tengono 14 messe per oltre tremila fedeli», spiega padre Marronetti. «Abbiamo più di trecento volontari tra medici, psicologi, psichiatri, persone che si occupano di offrire assistenza, abiti, cibo e farmaci ai più poveri. Per gli indigenti, abbiamo servizi quotidiani di docce, parrucchieri, barbieri e persino podologi. Chi vive sempre scalzo, infatti, può accusare fortissimi dolori e vari disturbi ai piedi e noi cerchiamo di confortarli. Abbiamo poi la possibilità di ospitare chi ha più bisogno, anche madri con bambini piccoli, e cerchiamo di offrire a queste persone l'opportunità di integrarsi a poco a poco nella società, insegnando loro un lavoro».

La mensa per i poveri di San Jose de Flores è da quindici anni una delle più attive della città, con sette turni giornalieri di volontari che, a gruppi di dieci/quindici, preparano prime colazioni e pasti caldi anche a tardissima notte. C'è chi dichiara di fermarsi qui ogni giorno per un paio d'ore, non solo per riuscire finalmente a mangiare, ma soprattutto per trovare un po' d'umanità, scambiare quattro chiacchiere in un luogo sereno e davvero accogliente.  

Nella bacheca posta accanto al portale di San Jose de Flores è ancora appeso un annuncio, che ora appare insolito. C'è scritto: "Sabato 23 marzo, h. 19. Benedizione solenne delle palme e Messa celebrata da sua Eminenza Jorge Mario Bergoglio". Nessuno, naturalmente, ha voluto staccarlo. «La processione che in due diverse colonne si è mossa dal santuario di San Cayetano e da Piazza Miserere, per convergere di fronte alla nostra basilica, si è tenuta come ogni anno», spiega il parroco Gabriel Marronetti. «Anche questo è un ricordo che ci ha lasciato papa Francesco. E' stato lui a volere questo evento, che si tiene ormai da cinque anni.  Questa è stata la prima volta che non era con noi». A  ricordo della grande processione, dentro la chiesa si trova ora una statua di Gesù a grandezza naturale, a cavallo di un asinello. Conclude il parroco, mostrandocelo: «Erano due gli asinelli in processione, ognuno in testa a una delle due colonne, a ricordare alla gente di Buenos Aires il momento trionfante dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme».  
 Giusi Galimberti

«La concezione magica dello Stato, la dilapidazione del denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge tanto nella sua osservanza quanto nel modo di dettarla e applicarla, la perdita del senso del lavoro». E, soprattutto, «una corruzione generalizzata che mina la coesione della nazione e ci toglie prestigio davanti al mondo. Questa è la diagnosi». Nel libro intervista di Gianni Valente (“Francesco, un papa dalla fine del mondo”, Emi) il futuro papa Jorge Mario Bergoglio elenca i mali morali che hanno portato alla bancarotta dell’Argentina, la cui fase acuta si registrò tra il 1999 e il 2002.

Bergoglio adoperò l’immagine dei genitori delle villas miserias (le baraccopoli) i quali  attendevano, di notte, che i figli dormissero per piangere sulle proprie sciagure. Avvenne nei giorni della bancarotta. Perché il default dello Stato argentino rappresentò uno dei momenti peggiori della sua storia. Quel terremoto economico-finanziario ha origine nel passato prossimo del Paese, nelle dittature militari  e in debolissimi governi democratici, vere e proprie Repubbliche di Weimer sudamericane, a cominciare da quello del presidente Raùl Alfonsin. Le politiche dittatoriali o fragili e corrotte portarono alla crescita del debito pubblico, accumulato soprattutto dopo la guerra delle Falkland. Furono questi i prodromi di una crisi economica devastante.

Quando il Governo si rivelò incapace di remunerare il debito, l’inflazione si impennò e andò fuori controllo, raggiungendo il tasso mensile del 200 per cento, fino al 5 mila per cento del luglio 1989. In molte città del grande Paese scoppiarono numerose rivolte popolari. Nel 1989 il liberista filo americano Carlos Menem, succeduto ad Alfonsin, dichiarò guerra  all’inflazione e stabilizzò la moneta nazionale agganciando l’austral, la moneta che aveva sostituito il peso al dollaro, con un cambio fisso. Tutto ciò ebbe effetti positivi per gli argentini, che poterono di nuovo viaggiare all’estero, acquistare beni d’importazione e chiedere crediti in dollari a tassi agevolati. Ma la montagna del debito pubblico continuava a incombere. Solo i prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale impediva che esplodesse.

Nel 1999, il neo eletto presidente Fernando de la Rúa (liberista come Menem e accusato di aver venduto per quattro soldi le imprese agli americani) prese in mano un Paese dove la disoccupazione era ormai a livelli critici e gli effetti negativi del tasso di cambio fisso erano ben evidenti. L’Argentina entrò in una recessione che divenne ben presto stagnazione. Al posto del peso, si utilizzavano valute complementari; la più forte di esse era il Patacón, emesso dalla provincia di Buenos Aires. La fuga di capitali aumentò. Nel 2001 la gente iniziò a temere il peggio e a ritirare grosse somme di denaro dai propri conti correnti convertendo pesos in dollari e mandandoli all'estero.

Il Governo adottò una serie di misure (note come corralito) che congelarono effettivamente tutti i conti bancari per dodici mesi, permettendo unicamente prelievi di piccole somme di denaro. Il corralito esasperò il popolo argentino che si riversò nelle strade di Buenos Aires. Si svilupparono proteste popolari, come il cacerolazo, che consistevano nel percuotere rumorosamente pentole e padelle. Queste proteste andarono avanti fino al 2002 e finirono per diventare “espropri proletari”. Gli scontri fra frange esasperate della popolazione e la polizia divennero una consuetudine, così come gli incendi appiccati nelle strade di Buenos Aires, messa a ferro e fuoco.

De la Rúa abbandonò la Casa Rosada in elicottero il 21 dicembre 2001 portandosi dietro una sorta di “damnatio memoriae” per la sua inconsistenza e incapacità. Durante l’ultima settimana del 2001, il governo ad interim guidato da Rodríguez Saá, di fronte all’impossibilità di ripagare il debito, completamente incapace di affrontare la crisi, dichiarò lo stato di default sulla maggior parte del debito pubblico. Al suo posto arrivò alla Casa Rosada Eduardo Duhalde, un senatore molto noto di Buenos Aires, che aveva la fama di risanatore negli incarichi che aveva ricoperto. Duhalde lasciò fluttuare il cambio con il peso spingendo in su l’inflazione fino all’80 per cento. Molte imprese chiusero o fallirono, molti prodotti importati divennero praticamente inaccessibili ed i salari furono congelati. I conti correnti in dollari furono convertiti in pesos a meno della metà del loro valore. Fu quella l’epoca dei cartoneros, i raccoglitori di cartone che vagavano per le strade di Buenos Aires per raggranellare qualche peso. uno dei tanti metodi che si utilizzavano in Argentina per far fronte ad un tasso di disoccupazione che era salito fino al 25 per cento.

Ma la cura da cavallo cominciò a funzionare. Eduardo Duhalde, dopo essere riuscito a stabilizzare la situazione, chiamò il popolo alle urne, vinte da Néstor Kirchner, che continuò a tenere quello che era considerato l’artefice della ripresa,  Roberto Lavagna, il ministro dell'economia nominato da Duhalde. Il Paese cominciava a respirare.  Anche perché la prospettiva economica era del tutto differente da quella degli anni novanta; il peso debole aveva reso le esportazioni argentine economiche e competitive all'estero ed aveva scoraggiato le importazioni. Inoltre, l’alto prezzo della soia sui mercati internazionali causò un grande afflusso di valuta estera. Il Governo incoraggiò la produzione locale e prestiti accessibili per le imprese, organizzò un piano ambizioso per aumentare il gettito fiscale e destinò una grande quantità di finanziamenti ai servizi sociali controllando la spesa in altri campi. Il peso, intanto, si rivalutò lentamente e l’industria a poco a poco trovò nuovi spazi anche attraverso le cooperative dei lavoratori che erano stati licenziati.

L’Argentina riuscì a tornare alla crescita economica con grande forza; il Pil aumentò a ritmi superiori dell’8 per cento, fino a toccare il 15 per cento nel 2007. Ma rimase sul campo tanta miseria, e soprattutto una diseguaglianza di fondo nella distribuzione dei redditi: il 10 per cento più ricco della popolazione argentina dispone di un reddito 31 volte superiore a quello più povero. Il nuovo presidente Cristina Kirchner, che aveva preso il posto dello scomparso marito Nestor, candidandosi alla testa del partito peronista fondato dal marito, annunciò un piano di pagamento ai creditori, basato su forti sconti, molto criticato dal Fondo Monetario Internazionale. Poi annunciò che il suo Paese avrebbe saldato, come il Brasile, il debito con l’Fmi.

Ma la terapia funzionò e l’Argentina si sentì in quegli anni fuori dall’incubo. L’Argentina ripagò il debito con le riserve di valuta estera della banca centrale. Anche se il Fondo Monetario di madame Christine Lagarde continua ad accusarla di truccare i dati macroeconomici, come avvenne oltre dieci anni fa. Ma la pasionaria peronista amica di Fidel Castro e Chavez ha risposto dando degli usurai ai vertici del Fondo. In questi ultimi mesi però anche gli argentini cominciano a sentire puzza d’imbroglio. I rincari hanno ripreso a galoppare. La disoccupazione aumenta. E così da settembre sono tornati in piazza con pentole e cucchiai. 

Francesco Anfossi

Il tango. Passione e nostalgia. Per le strade del centro di Buenos Aires i tangueros continuano a ballare. Qualche anno fa, in pieno collasso economico, quando l'Argentina era in ginocchio, si ballava per vincere la malinconia, per sublimare l'amarezza e la disillusione attraverso le note struggenti del bandoneón. Si ballava allora e si continua a ballare oggi per i turisti stranieri. I turisti che, quando non popolano le milongas, le sale da ballo, si raccolgono in capannelli intorno alle coppie dei tangueros per le strade del centro e dei quartieri più tradizionali della capitale argentina, come San Telmo. O tra le case dipinte di Caminito con il suo fascino decadente, nello storico quartiere popolare La Boca, dove di giorno si passeggia in un'atmosfera deliziosamente bohèmienne ma, non appena cala il buio, i poliziotti per la strada ti consigliano di prendere il primo autobus e di allontanarti in fretta, se non sei uno del posto.

Il tango continua ad essere l'anima dell'Argentina. Ed è un'impareggiabile risorsa turistica. Ogni anno, nella seconda metà di agosto, Buenos Aires - la città più europea dell'America latina, insieme a Santiago del Cile - spalanca le sue porte ai ballerini di tutto il mondo che si sfidano nel Festival mondiale di tango, il "Campeonato de baile de la ciudad": un maxi-evento molto pubblicizzato e seguito, pensato più per i turisti che per i porteños (gli abitanti di Buenos Aires), che certamente preferiscono le piste delle milongas al grande palcoscenico internazionale. 

Considerata la capitale più europea del Sudamericana - insieme a Santiago del Cile -, Buenos Aires è città di partenze e approdi, incroci, scambi. Per le sue strade si respira la cultura, tra librerie, cinema, centri culturali, ampia offerta di spettacoli e di musica. Il prestigioso Teatro Colón è uno dei più grandi del mondo. Argentina, in America latina, vuol dire dire anche fioritura cinematografica. Nel continente, il Paese di papa Francesco è quello che ha sviluppato maggiormente la cinematografia. Come osservano le riviste specializzate latinoamericane, al pari del Brasile da alcuni anni Buenos Aires ha dato un impulso straordinario alla sua produzione di film, in termini di prodotti commerciali di qualità e di presenze e riconoscimenti nei festival e nelle rassegne internazionali. Un cinema  che oggi si caratterizza per una sua identità specifica. Se i film degli anni Ottanta e Novanta esprimevano in buona parte la riflessione post-dittatura, con una visione più politica, la produzione contemporanea riflette ampiamente la disillusione degli anni della crisi economica e sociale.
 
Lucrecia Martel (tra i suoi film La ciénaga e La niña santa) è uno dei talenti del nuovo cinema argentino. E, soprattutto, Juan José Campanella, regista di El secreto de sus ojos (Il segreto dei suoi occhi), noir nato dall'adattazione di un romanzo di Eduardo Sarcheri, e interpretato da  Ricardo Darín, uno dei volti più celebri del grande schermo porteño.  Nelle sale argentine la pellicola ha attirato 2,4 milioni di spettatori e nel 2010 ha conquistato il premio Oscar come miglior film straniero. Ancora prima, nel 2001, Campanella aveva diretto El hijo de la novia (Il figlio della sposa), altra pietra miliare del cinema degli anni Duemila (candidato all'Oscar come miglior film straniero), sempre interpretato dal suo amico Darín. Che, fra l'altro, ha recitato anche in Nueve reinas (Nove regine) del 2000, film poliziesco di Fabián Belinsky, annoverato come un grande classico della cinematografia argentina.

Un ruolo di primo piano in America latina l'Argentina lo occupa anche per la letteratura. Dopo il tracollo dei primi anni Duemila, l'editoria oggi ha ripreso a marciare, dando un forte impluso in termini numerici alla produzione di libri. Buenos Aires esporta i suoi libri nel resto del continente, soprattutto nel confinante Cile e in Messico. Anche il Brasile traduce moltissimo le opere argentine. Nel 2010 il Paese latinoamericano è stato l'ospite d'onore della Fiera del libro di Francoforte. Jorge Luís Borges, Mario Benedetti, Julio Cortázar, Ernesto Sabato, Adolfo Bioy Casares, Osvaldo Soriano, certamente. Ma non solo.

La narrativa argentina di oggi presenta un panorama vasto, stimolante,
molto variegato al suo interno. Solo per citare alcuni nomi, Mempo Giardinelli (autore di romanzi come La rivoluzione in bicicletta e Finale di romanzo in Patagonia), esiliato in Messico durante gli anni della dittatura, ed Elsa Osorio (che nel romanzo I vent'anni di Luz ripercorre la vicenda dei figli degli oppositori politici strappati ai loro genitori e dati ad altre famiglie al tempo del regime dittatoriale). 

Uno sguardo potentemente realistico sulla realtà sociale argentina lo fornisce la giornalista e scrittrice Leila Guerriero, che in Suicidi in capo al mondo (uscito in Argentina nel 2005 e diventato un best seller) ripercorre una lunga inchiesta nella desolata Las Heras, cittadina della Patagonia esclusa dai circuiti turistici, dove nell'arco di poco tempo si sono verificati numerosi apparentemente inspiegabili suicidi. Nella forma di un thriller la Guerriero fotografa con scarna lucidità una parte del suo Paese sterminato, sconosciuta ai turisti, dimenticata anche dalla capitale: "Questo era il Sud", si legge nel libro. "Il Sud dell'Argentina ma anche del mondo. Il fondo, il confine, il posto da cui tutto è lontano". 

Ritratto crudo, realistico della realtà sociale argentina è anche quello che offre Reynaldo Sietecase in Pendejos (uscita nel 2007): una raccolta di racconti che hanno come protagonisti dei bambini e ragazzi che finiscono per compiere degli omicidi, vittime della società e carnefici nello stesso tempo. Che siano figli della classe media o del disagio dell'emarginazione, bambini protetti da famiglie benestanti o piccoli dipendenti dal paco, la droga dei poveri e dei diseredati, drammatica piaga sociale delle villas miserias di Buenos Aires, delle baraccopoli, delle immense e disperate periferie urbane di questa terra alla fine del mondo.



Giulia Cerqueti

Si potrebbe dire che tutta parta dal Brasile. Anche se il Celam (Consiglio episcopale latinoamericano, che raggruppa gli episcopati di America Latina e Carabi) che si riunisce a Rio de Janeiro dal 25 luglio al 4 agosto del 1955 – con l’approvazione di Pio XII -  non è ancora il combattivo episcopato che impareremo a conoscere negli anni successivi, c’è però in nuce tutta la teologia che sarà espressa sia nel corso del Concilio Vaticano II che nella prima conferenza post conciliare, nel 1968 a Medellin. Incontro considerato uno dei frutti più maturi proprio del Vaticano II. 

Pochi anni dopo la chiusura del Concilio, fu Paolo VI ad aprire la conferenza di Medellin (Colombia) e a rendere chiara l’applicazione a quel continente del metodo vedere, giudicare, agire elaborato nel Concilio. Osservazione della realtà (vedere), giudizio su di essa a partire dalla Parola di Dio (giudicare) e azione pastorale corrispondente a quel giudizio (agire). È il momento delle Chiese locali, il tempo della collegialità, la presa di posizione per l’opzione preferenziale per i poveri.

Da Medellin ad Aparecida, passando per gli appuntamenti di Puebla (1979) e di Santo Domingo (1992), la Chiesa latinoamericana è andata via via configurandosi come una Chiesa autoctona, con una voce, una ecclesiologia e una teologia proprie. Non sempre il percorso è stato lineare e, da Roma, è spesso venuto più di un freno alla “creatività” latinoamericana.

Già Puebla rappresentò un piccolo freno alle speranze di una Chiesa che aveva la sua forza soprattutto nelle comunità di base e nella teologia della liberazione. “La paura della deriva marxista più che la fiducia nell’azione dello Spirito hanno portato un certo cambiamento nella fisionomia del Celam. Non a caso, a dire degli osservatori locali, alcune nomine dei vescovi in America Latina sono avvenute più con criteri di sintonia con Roma che non per fiducia negli episcopati locali”, denuncia il teologo Giacomo Canobbio. Ma, nonostante tutto, la Chiesa latinoamericana è arrivata ad Aparecida, nel 2007, pronta a riprendere il cammino accanto e in mezzo alla gente.

L’assedio delle sette, la disperazione della mancanza di lavoro, le favelas che si riempiono a vista d’occhio, la criminalità che esplode chiedono alla Chiesa di essere presente. Non a caso proprio sulle comunità di base i vescovi riuniti ad Aparecida avevano scommesso di più. Così come sul dibattito libero che era mancato a Santo Domingo. “Abbiamo imparato la lezione di Santo Domingo”, diceva il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini nei giorni dei lavori in Brasile, “questa volta abbiamo avuto la possibilità di consultarci con i nostri esperti e teologi e stiamo rilanciando la formazione dei laici e il dibattito. Se vogliamo affrontare la complessità del mondo contemporaneo non c’è altra strada”.

Fortemente preoccupati soprattutto per l’avanzata delle sette che si propongono alle persone più in difficoltà come compagni di viaggio su cui contare, i vescovi del Celam riproponevano con forza, nel documento approvato al termine dell’incontro, “le comunità ecclesiali di base come spazi privilegiati per vivere comunitariamente la fede, sorgenti di fraternità e solidarietà, una alternativa all’attuale società fondata sull’egoismo e la spietata competizione”.

Un passaggio, come denunciò sulla stampa brasiliana il cardinale Geraldo Majella Agnelo, arcivescovo di Salvador de Bahia e copresidente di quella conferenza, che fu ampiamente ritoccato nel documento finale approvato da Roma. Tuttavia, di quelle riflessioni dell’episcopato latinoamericano è rimasta traccia soprattutto nella prassi pastorale e nella grande missione continentale lanciata proprio al termine dei lavori di Aparecida.

Prassi che oggi, con papa Francesco, torna ad avere forza e a far sperare, di nuovo, i milioni di fedeli che in questi anni hanno avuto vicina la Chiesa grazie a quei pastori che non si sono dimenticati dell’opzione preferenziale per i poveri e che, per dirla con papa Bergoglio, non si sono stancati di avere addosso l’odore del gregge.





Annachiara Valle


In un secolo, dal 1857 al 1956, quasi 3 milioni e mezzo di italiani hanno lasciato le zone d'origine per emigrare in Argentina. Si tratta del primo gruppo nazionale in assoluto seguito, già a una distanza considerevole dagli spagnoli, che nello stesso periodo raggiunsero il Paese latinoamericano in 2 milioni e 300mila circa. Poi sono sbarcati a Buenos Aires francesi, polacchi, russi, tedeschi e austriaci. E per ognuna di queste nazionalità contava di più, a volte, l’appartenenza regionale, il dialetto: e così si formarono comunità liguri, piemontesi, i venete, siciliane, calabresi e via dicendo.

E’ in questa mescolanza di nazionalità che si forma nel corso del ‘900 la popolazione argentina moderna, anche se gruppi consistenti di italiani avevano già raggiunto Buenos Aires nella prima metà dell’800. E’ un’epopea straordinaria e drammatica quella degli italiani che in massa andranno a popolare le pianure vastissime del Paese, le pampas,  ma anche le città introducendo innumerevoli mestieri e forme di artigianato e fornendo però, al medesimo tempo, una manodopera gigantesca fatta di lavoratori giornalieri, di braccianti, agricoltori, operai.

E tuttavia con il passare del tempo e il mutare delle fasi storiche, affluiranno oltreoceano anche intellettuali, scrittori, politici, sindacalisti, anarchici, antifascisti e fascisti. Tutti costoro contribuiranno allo sviluppo della vita culturale alla nascita di riviste e di case editrici, di partiti, di organizzazioni sindacali. In un certo modo la storia d’Italia la si può leggere in controluce anche guardando alla storia e allo sviluppo dell’Argentina.   Il periodo in cui il maggior numero di italiani raggiunse il Rio de la Plata è quello che va dal 1906 al 1910, quando oltre mezzo milione di persone lasciarono un Paese, il nostro, in grave crisi, con livelli diffusi di povertà, per raggiungere il sogno della terra promessa in Argentina. Molti altri partivano per il Brasile e gli Stati Uniti. Ancora dal 1911 al 1915 se ne andarono in 300mila 451, dal 1921 al 1925 il numero di partenza dall’Italia verso l’Argentina torna a superare quota 300mila.

Altri picchi significativi (archiviati quelli successivi all’Unità d’Italia, decenni in cui gli italiani partono in massa) si registrano nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1955. Per questo oggi sono innumerevoli gli argentini che vantano una discendenza italiana di qualche tipo.  

A guidarci in questa storia di partenze, di separazioni e nuovi inizi è il Cemla, il Centro di studi migratori latinoamericani di Buenos Aires, fondato nel 1985 da padre Luigi Favero; il Cemla è uno dei più prestigiosi centri di ricerca sulle migrazioni in Argentina e in diversi paesi  dell’America Latina. Fra l’altro sta compiendo un enorme lavoro di raccolta della memoria collettiva della migrazioni italiana verso l’Argentina, il Cile, l’Uruguay attraverso documenti, microfilm, ricostruzione delle identità famigliari. Il centro fa parte della famiglia religiosa scalabriniana, impegnata da sempre sul tema dei migranti. E del resto la storia delle migrazioni è anche, parallelamente, la storia di come le congregazioni religiose hanno seguito le comunità italiane nelle varie regioni del mondo contribuendo a conservare l’identità e i legami fra le persone e le famiglie.

Alicia Bernasconi, Segretaria generale del Cemla, anche lei di origini italiane, spiega: “Nel caso argentino, i Salesiani hanno giocato un ruolo molto importante  a partire dal 1870 nel provvedere all’assistenza e alla guida religiosa degli immigrati italiani; nel secondo dopoguerra sopratutto i missionari Scalabriniani – presenti in Argentina dal 1940 - si sono occupati della assistenza religiosa e non solo degli emigrati italiani”. Nel Paese, tuttavia, vi è sempre stata anche una forte presenza di Gesuiti e Francescani poi, a partire dall’inizio del ‘900, importante è stato il ruolo svolto dalle istituzioni legate a Don Orione.

Secondo padre Costanzo Tessari, scalabriniano che da 40 anni vive nel Paese del ‘cono sud’, l’elezione di Papa Bergoglio “è frutto dell’emigrazione italiana in Argentina che  ha dato al Paese uomini di scienza, della cultura, della politica e anche uomini di Chiesa”.  “L’emigrazione piemontese  – aggiunge - ha una presenza religiosa interessante nel Paese”. D’altro canto lo stesso Bergoglio, raccontano al Cemla, “partecipava alle celebrazioni della giornata del migrante. La sua attività nelle ‘villas miserias’ (le periferie più disagiate e le baraccopoli di Buenos Aires, ndr.) toccava tutti i poveri, tra cui parecchi sono migranti. Anche la sua attività contro la tratta delle persone coinvolge i migranti, che ne sono spesso le vittime più facile di questo flagello” Per questo, fra l’altro, era in contatto con i padri scalabriniani.

Ma se l’Argentina è un Paese per sua natura aperto all’immigrazione – la vastità immensa dei territori e la necessità di colonizzarli rappresentò un incentivo formidabile ai flussi migratori – nel corso dei decenni non sono mancati anche i problemi. “L’atteggiamento dell’Argentina favorevole all’immigrazione – spiega la Segretaria generale del Cemla - è chiaramente espresso nella stessa Costituzione del Paese, sia nel testo del 1853 che in quello della più recente riforma del 1994”.  Nonostante questo però “sono state stabilite restrizioni dal 1902 in poi. I governi militari sono stati in genere più ostili verso l’immigrazione, e la dittatura di Videla mise in atto la più dura legge migratoria”.  Ma successivamente, attraverso l’impegno della società civile e delle istituzioni ad essa collegata, comprese quelle della Chiesa che si occupano delle migrazioni, “dopo oltre quindici anni di lavoro i legislatori  approvarono nel 2004 una legge modello nel mondo che riconosce la migrazione come un diritto umano”.

Naturalmente questo non ha risolto ogni problema, in quanto, spiega ancora Alicia Bernasconi,  “intorno al tema dell’immigrazione esistono sempre tensioni. Alla sfiducia, al pregiudizio si aggiungono la mancanza di opportunità di lavoro, i problemi della marginalità e dell’insicurezza, di cui l’immigrato è sempre il capro espiatorio”. “Non tutti  - prosegue - vedono favorevolmente la generosità della legge che garantisce ai migranti il diritto all’educazione e a alla salute a parità di condizione degli altri cittadini.  Il lavoro della Congregazione Scalabriniana, compreso il Cemla, si orienta anche a sensibilizzare alla società sulla  problematica dei migranti, smontando i pregiudizi e le false informazioni”.  
  Francesco Peloso

 
 
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