Nacque vincendo le paure e seppellendo le frontiere. Paure e frontiere rischiano oggi di perderla. L'Europa festeggia il suo compleanno il 9 maggio perché quel giorno, nel 1950, venne varato il cosiddetto Piano Schuman: la produzione del carbone e dell'acciaio franco-tedesca venne messa sotto l'egida di un'autorità superiore ai due Stati, il Vecchio Continente cominciò così il lento (e accidentato) cammino dell'integrazione economica, sociale e politica. L'idea era quella di evitare di innescare nuovi duri confronti tra potenze per il controllo delle materie prime e la gestione dell'industria pesante, il che portava come conseguenza il voler assoggettare territori ricchi di entrambe (Alsazia, Lorena, ma non solo).
Un punto di partenza economico, ma che inevitabilmente diventò subito anche
politico (i confini non più barriere inviolabili; le istituzioni nazionali sovrane, sì, ma fino a un certo punto),
sociale (i popoli finalmente fratelli, non nemici),
psicologico (la paura dell'altro riconosciuta come limite da superare, e non spesa come moneta elettorale).
Non è un caso che a gestire questo processo furono tre persone accomunate dall'essere uomini di frontiera, dall'aver conosciuto la persecuzione politica (fino a finire in prigione), dall'aver sperato contro ogni speranza (tutti e tre sognarono l'Europa quando le tenebre erano assolute, quando cioè il nazifascismo aveva incendiato il mondo e sembrava vincente).
Un francese, un tedesco, un italiano; tre statisti, tre cristiani: Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. A loro si unirono altri uomini di levato spessore umano e culturale, spesso anche spirituale, come il
belga Paul-Henri Spaak, il
lussemburghese Joseph Beck, l'
olandese Johan Willem Beyen (che era un banchiere lungimirante, oltre che politico). E non è un caso che a lavorare a un'integrazione declinata sul versante della pace che su quello della giustizia economico-sociale siano state anche e soprattutto personalità animate da un profondo sentire cristiano, come
il francese Jacques Delors o come l'italiano Romano Prodi.
Di certo i Papi hanno contributo con il loro Magistero.
Comincia Pio XII. Il 2 giugno 1946 si pronuncia a favore di «un'Unione europea». L'11 novembre dello stesso anno torna in argomento, con maggiore passione ancora: «Non c’è tempo da perdere», dice Eugenio Pacelli, «se si vuole che questa Unione raggiunga il suo scopo, se si vuole che essa serva utilmente la causa della libertà e della concordia europea, la causa della pace economica e politica intercontinentale, è ormai tempo che si faccia. Anzi alcuni si domandano se non sia già troppo tardi».
Giovanni XXIII, già nunzio apostolico in Bulgaria, in Turchia e a Parigi, avvia l’Ostpolitik, che arriva con Karol Wojtyla, alla famosa idea dell'Europa a due polmoni, dall’Atlantico agli Urali.
Paolo VI, fratello del senatore Lodovico Montini, instancabile propugnatore dell'Unione europea e per tanti anni rappresentante del nostro Paese al Parlamento europeo, ripete più volte che il Vecchio Continente deve unirsi per meglio servire il progresso dei popoli meno fortunati. Negli anni difficili che vanno dal '63 al '72, culturalmente dominati dal violento antieuropeismo della contestazione, Paolo VI esorta a non disperdere lo slancio originario di quella “rivoluzione pacifica” che ha dato vita al processo di unificazione europea.
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Con Giovanni Paolo II, l'accelerazione. «Karol Wojtyla», sintetizza Romano Prodi, «ha sostenuto il processo di unificazione e di allargamento, riuscendo a leggere nel crollo dei regimi comunisti senza spargimento di sangue qualcosa che impegnava tutta la sua Chiesa. Pensiamo all’episcopato tedesco che ha mantenuto aperto un dialogo con l’altra Germania e ha sostenuto le scelte del cancelliere Kohl sulla riunificazione con la lungimiranza di cui il cardinale Lehmann è stato l’emblema». «Ricordo con gratitudine la continua e proficua collaborazione con la Conferenza episcopale tedesca durante tutti gli anni della mia presidenza alla Commissione Europea con l’intento di rafforzare i contenuti etici e spirituali dell’Unione», prosegue Prodi attingendo ai suoi ricordi personali: «Si potrebbe citare inoltre lo sforzo del cardinal Martini per la nascita di un organismo ecumenico dei vescovi europei e il positivo ruolo in tale senso giocato dai cardinali Danneels o Lustiger». E poi Benedetto XVI. Infine, papa Francesco, con i suoi incisivi discorsi del 25 novembre 2014 e del 6 maggio 2016.
Il problema oggi sono le elite, le classi dirigenti. Latitano statisti. Ancora Prodi: «Ricordo Helmut Kohl che diceva: “Molti dei miei cittadini sono contro l’euro, però io voglio l’euro perché, caduto il muro di Berlino, dev’essere chiaro che non vogliamo un’Europa germanica ma una Germania europea”. Questa è leadership». Ciò che danneggia l’Europa è la mancanza di coraggio che porta a barattare un progetto di più ampio respiro con immediati tornaconti elettorali. Si preferisce la via del populismo e del localismo. In alcuni Paesi questa tendenza è radicata e ricorrente, come nel partito conservatore inglese; in altri Stati è realtà da qualche tempo (il lepensimo in Francia, la Lega, in Italia); in altre Nazioni è di recentissimo conio (Viktor Orban, in Ungheria; Norbert Hofer, in Austria). Queste tendenze immettono nuovamente nel mercato della politica e dell'opinione pubblica un fattore che, nell’Europa del Novecento, il secolo breve e insanguinato, è stato pericolosamente decisivo, cioè l’elemento della paura. Alimentata, negli ultimi mesi, da un pericoloso mix: crisi economica, boom dei flussi migratori, terrorismo. Da qui il costruire forsennatamente muri e barriere, a neppur trent'anni dallo sgretolarsi della cortina di ferro. Chi semina paure perde presto la possibilità di governarle, ammoniva tempo famonsignor Giuseppe Bertello, testimone oculare del genocidio rwandese. Meglio che la cara, vecchia, triste Europa lo tenga ben presente. Soprattutto nel giorno del suo compleanno.