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mercoledì 22 gennaio 2025
 
il ricordo
 

Buon viaggio Deo, principe arguto e gentile

01/06/2021  Amedeo d'Aosta si è spento con la stessa dignità e la stessa forza con cui è sempre vissuto. Per le sue straordinarie qualità, tra cui una grande competenza, molti monarchici lo consideravano il vero erede di Umberto II di Savoia. Malato da tempo, aveva una fede genuina e verace (di Luciano Regolo)

L’ultima volta che ci eravamo sentiti era per l’ultimo dell’anno. Si sapeva che era sempre più minato dal male che lo aveva colpito da tempo, ma lui, Amedeo di Savoia-Aosta, principe discendente diretto di quell’Amedeo effimero re di Spagna e figlio di Vittorio Emanuele II, ma anche nipote del “Duca Invitto” Emanuele Filiberto, comandante della III armata durante la Grande Guerra, dell’eroe dell’Amba Alagi di cui portava il nome (fratello di suo padre Aimone), e pronipote di Luigi duca degli Abruzzi, il leggendario esploratore  della spedizione polare del 1900, non dava segni di cedimento. La voce cordiale e poderosa, la risata pronta, i modi non solo gentili, ma profondamente umani ed empatici. Amedeo si è spento con la stessa dignità e la stessa forza con cui è sempre vissuto. Amante della scoperta e della vita, curioso fino all’ultimo. Con una compagna, Silvia, nata Paternò Ventimiglia, marchesi di Reggiovanni, conti di Prades e baroni di Spedalotto, storica famiglia di Sicilia, sposata nel 1987 dopo che la Chiesa aveva dichiarato nulle le sue prime nozze con Claudia d’Orleans, madre dei suoi tre figli, che le è stata accanto fino all’ultimo. Silvia l’ha aiutato - lui che aveva voluto perfino portarla al Polo nel 2000 sulle orme del celebre avo - anche nell’ultima scoperta che ne ha animato gli anni più recenti: la fede. Un fede genuina e verace, discreta com’era lui. «Mia moglie Silvia è generosa e buona con tutti, lo è stata molto anche con me e grazie a lei, per la prima volta mi sono svegliato nell’anima», mi ha detto in una delle nostre ultime conversazioni. Erano stati insieme anche a Medjugorje, dopo essere passati a Loreto per lasciare alla Madonna un ex voto perché Amedeo riteneva che sia lui, sia il padre (nel 1919) erano scampati a un incidente aereo grazie all’intervento della Vergine.

Tanti monarchici vedevano in lui il vero erede del trono che non c’è più e questo perché al di là delle ragioni dinastiche aveva, indubbiamente, rispetto ai maschi, cugini alla lontana, del ramo principale, discendenti diretti dell’ultimo re Umberto II, uno stile d’altri tempi e soprattutto la capacità di dialogare con arguzia, proprietà di linguaggio e preparazione storica sul controverso passato della dinastia sabauda. Capace di difendere la memoria del Casato, pur avendo giurato, da militare, uscito dal Morosini e dall’Accademia di Livorno, fedeltà alla Repubblica.

Ne raccolsi diverse volte le riflessioni, fin dai miei primi articoli per La Repubblica nel 1993-94, quando lo conobbi. L’ultima quando avevamo parlato della decisione di Vittorio Emanuele, il figlio di Umberto II, di cambiare la legge di successione per far sì che diventasse erede al trono che non c’è più Vittoria, la primogenita di Emanuele Filiberto che non ha avuto maschi. Il duca, imparentato con varie dinastie regnanti, dai Windsor ai Borbone di Spagna, era d’accordissimo sul fatto che non si potesse più giustificare la legge salica, ma sottolineava «l’illegittimità e l’invalidità giuridica» di una modifica del genere fatta “a tavolino” senza che esista più una Corona e soprattutto un parlamento in grado di approvare quella legge: «Sarebbe un paradosso, un gesto assolutista in nome della modernità», disse a Famiglia Cristiana.

Ma non esacerbava mai i conflitti. Neppure quando Vittorio Emanuele e il figlio gli fecero causa (e poi la persero) per l’uso del cognome Savoia, che pure gli spettava di diritto essendo d’Aosta solo il predicato di un titolo nobiliare che per la Repubblica italiana non conta più. Aveva invece un ottimo rapporto con le cugine, con le figlie di Amedeo viceré d’Etiopia, Margherita e Maria Cristina, ma anche con le figlie di Umberto II, specie con Maria Gabriella, e con Maria Beatrice, che ho sentito subito dopo la notizia della sua scomparsa: «Con Deo, come lo chiamavamo in famiglia ho perso un grande amico. È stato mio compagno di giochi in gioventù poi confidente sincero e sempre di ottimo umore e accogliente. Mi ricordo quando mi congratulai per aver chiesto a Silvia di sposarlo, era felice. Lei è una persona speciale e lo ha assistito con amore incrollabile sino alla fine».

Col duca si poteva parlare di tutto dalla storia al suo pallino per i tatuaggi o quello per la botanica (nel dammuso di Pantelleria collezionava e classificava piante succulente), sempre con la stessa piacevolezza. Una volta mi fece vedere le memorie della governante che aveva seguito la madre Irene di Grecia e la zia Anna d’Orleans, con i figli nel campo di concentramento di Hirschegg, vicino Graz deportati dai nazisti quando lui aveva appena 9 mesi nel 1944: «Di buono c’è», sorrise, «che a quell’età non si ricorda nulla». Sdrammatizzava su tutto. Difendeva la memoria del padre, di cui conservava delle lucide riflessioni sul perché il regno di Croazia (di cui gli fu attribuita la corona con il nome di Tomislav II) non poteva avere basi solide. Silvia gli aveva dato anche una mano a vincere i blocchi emotivi del suo passato (aveva perso il papà attorno ai 4 anni e ricevuto un’educazione militare) e a tenere sempre vivi e saldi i rapporti coi figli Bianca, Aimone e Mafalda e con gli undici nipoti di cui andava fiero. Con gioia posavano tutti insieme in giardino, in Toscana, con anche Claudia d’Orlèans, per le foto da spedire agli amici per gli auguri di Natale.

Mi piace ricordarlo sorridente e col suo senso dell’ironia: una volta mi chiamò divertito per le didascalie, simpatiche ma irriverenti, delle foto paparazzate che lo ritraevano a pesca di ricci, aveva capito che le avevo scritte io, ma non se la prese, anzi. Mancherà a tanti Amedeo, anche a chi scrive e il lavoro non c’entra. Buon viaggio, duca, verso quell’Eterno che aveva cominciato a gustare già qui.

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