Giulio Andreotti, che di potere se ne intendeva, era solito
ripetere che l’Italia sa partorire due tipi di matti: chi si crede Napoleone e
chi vuol riformare le Ferrovie. Chissà cosa direbbe oggi, a sentire
Renzi parlare di riforme della Pa e di incarichi temporanei ai dirigenti.
Forse aggiornerebbe la battuta aggiungendo una terza categoria.
Renzi ha già fatto esperienza della ambiziosa follia a cui si accinge.
Per avere alla guida del Dipartimento affari giuridici della presidenza del
Consiglio Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze, ha dovuto
aspettare il via libera della Corte dei Conti. E non pare abbia gradito. Avere
assaggiato l’oscura inerzia della Pubblica Amministrazione lo avrà rinvigorito
nel proposito di snellire i processi di nomina dei dirigenti pubblici e di rafforzare
la pratica dello spoils system, che male abbiamo importato dagli Stati
Uniti (si veda la cosiddetta riforma Brunetta, legge 150 del 1999, su cui
ancora oggi si affatica la Consulta).
Di certo è lì, in quella sottile cerniera tra politica e
amministrazione, in quella linea d’ombra in cui risiedono direttori generali,
capi di gabinetto e capi dipartimento dei ministeri che spesso si punta
il carro della leggi e della politica. E pare annidarsi, oggi, la
“resistenza” alla Riforma. L’alto travet di Stato, che appunto Brunetta avrebbe
voluto in scadenza ai 90 giorni da un nuovo Governo salvo conferma, pare
animale indocile. Resiste, insiste, si intigna. E’ scoglio al cambiamento, sia
esso il varo di un articolato di legge o di un decreto legislativo.
Una cosa è certa: per una volta non si tratta di retribuzioni. Su queste,
Renzi ha dato un taglio, 240 mila euro annui, come già per le aziende di Stato.
La domanda che si pone è invece un’altra:
il grand commis – direttore generale, capo di gabinetto o capo dipartimento –
ha o no da essere subordinato al politico di cui interpreta voleri e indirizzi?
Deve o no rinunciare per contratto ad avere propria ed esplicita volontà? In
altre parole: l’indipendenza e professionalità del burocrate sono un valore
da preservare, in quanto filtro tecnico dell’arbitrio politico, o da
sacrificare sull’altare dello spoils system, del fare presto imposto da una
politica che va veloce perché affetta da incapacità coeundi? Quesiti non da
addetti ai lavori. Il direttore
generale del ministero non è che l’ultimo anello di una catena di piccoli e
grand commis che, in scala dovuta, regolano come un rubinetto il flusso di
burocrazia che tocca in sorte tutti noi in forma di certificati, bollettini,
adempimenti d’impresa, dichiarazioni fiscali.
E dunque eccola la nostra (modesta)
proposta. I burocrati di Stato siano selezionati, tutti, comprese le
funzioni apicali, per concorso. Lo dice già la nostra Costituzione
all’articolo 97. Sia garantito a ciascuno – capi di gabinetto di
ministero, direttori generali di Regione, presidenti di Asl -
l’autonomia che si deve a un manager: verifica degli obiettivi e retribuzione
parametrata al loro conseguimento. Infine sia ristretto il numero degli
incarichi fiduciari della politica alle dita di due mani. Perché è
vero che il carro della politica (e anche quello del cittadino) si impunta
sulla burocrazia, ma il fatto che la pietra sia messa lì dal politico di turno
rende semmai più impervio l’ostacolo. Quella dello spoil system, alla
lettera “sistema delle spoglie”, ci pare una razzia priva di senso. E ci
sembra che a trarne vantaggio sia quella quota di burocrazia che si avvicina più
al parassitismo che alla sana gestione. Per quest’ultima servono gli
strumenti che si applicano a ogni buona azienda: compensi adeguati, metriche di
misurazione del lavoro, possibilità di licenziamento in caso di inefficienza.
Cominci da qui, caro premier. Nessuno le darà del Napoleone.