A noi genitori si è ghiacciato il sangue quando la cronaca ci ha raccontato l’episodio del pullman dirottato con a bordo decine di bambini. L’intenzione del dirottatore sembrava quella di fare una strage, ma due bambini sono riusciti a lanciare l’allarme e, in mezzo a molta paura, alla fine si sono salvati tutti. Inutile dire, però, che notizie di questo tipo hanno un impatto fortissimo sulla vita di chi vi si trova coinvolto, considerato che un’esperienza di questa natura rappresenta il massimo della traumatizzazione che un soggetto può sperimentare. Bisognerà, su questi bambini e sulle loro famiglie, promuovere interventi di desensibilizzazione al ricordo dell’esperienza vissuta, altrimenti il rischio è che si sviluppi e strutturi un disturbo da stress di natura post-traumatica. Ma in questo scritto, vorrei approfondire il tema di come eventi di questa natura rappresentano in realtà una causa di traumatizzazione indiretta anche per tutti coloro che vi assistono attraverso telegiornali e riprese video che, in questi giorni, hanno invaso i programmi dei palinsesti televisivi ad ogni ora del giorno. Una scena tremenda viene così riproposta alla visione degli spettatori continuamente generando una serie di conseguenze il cui impatto a breve, medio e lungo termine non è trascurabile. Soprattutto per i nostri figli.
Il primo effetto è l’incremento della percezione del pericolo. Ovvero quando un evento singolo viene raccontato ripetutamente e in modo quasi ossessivo dai media, soprattutto attraverso codici di natura emozionale (non si hanno notizie nuove da comunicare, ma si fornisce una costante esperienza emotiva destabilizzante allo spettatore, che non riesce perciò a sganciarsi dall’invischiamento in cui quel modo di raccontare i fatti lo tiene intrappolato), ecco che quell’evento diventa una sorta di pensiero fisso. La mente non si riesce a staccare da quelle immagini e da quelle notizie, tutto viene amplificato. E alla fine, ciò che ci succede è che da un singolo fatto, noi deriviamo una generalizzazione che riguarda non più solo quel fatto, ma la nostra visione del mondo. I bambini che assistono ai fatti raccontati, alla nostra ansia crescente e preoccupazione che ne deriva, alla fine tendono a “imparare” che il mondo è un posto molto pericoloso e che ogni passo che loro fanno fuori dalla zona di protezione dei loro genitori può esporli a pericoli irrimediabili. In effetti, questo è ciò che sta succedendo a molti dei nostri figli. Non li autorizziamo più a gestire uno spazio di vita in autonomia e libertà nello spazio che sta “fuori di casa”. Avvertiamo il pericolo come incombente su di loro e li accompagniamo sempre e dappertutto, anche se sono già preadolescenti o giovani adolescenti. In questo modo, però, loro rimangono sempre in una zona di dipendenza che viene alimentata dalla nostra ansia e paura di tutto. Per uscire da questo circolo vizioso, dovremmo imparare a pensare che c’è sempre una dose di rischio abbinata alla nostra vita e che tale “dose” è fisiologica e non può essere eliminata. Il fatto del dirottamento del bus, resta un “fatto” singolo. Terribile, deprecabile, ma non generalizzabile. E noi dovremmo continuare ad alimentare il bisogno di esplorare e di conoscere il mondo e gli altri nei nostri figli, non il contrario. Mentre, il messaggio principale che i nostri figli sentono dopo fatti come questo è: “Vivi in allarme e impara a difenderti, perché tutto e tutti ti possono far male”.
Il secondo effetto che una notizia del genere produce è l’amplificazione della visione dello straniero come un potenziale attentatore e terrorista, quindi come qualcuno di pericoloso che ci espone a rischi crescenti. Inutile dire che su questo, media e politica ci marciano alla grande. Ma nella notizia del bus dirottato, c’è un’importante componente che va mostrata ai nostri figli, legata al fatto che il ragazzino eroe che ha salvato tutti è anch’egli uno straniero, tra l’altro senza cittadinanza italiana. Ovvero, potremmo dire, in questa storia è lo straniero che attacca ed è sempre lo straniero che salva. Ovvero: non esiste una categoria etnica o geografica per i percorsi del bene e del male, nelle nostre vite. Esistono invece scelte e responsabilità che ciascuno fa e agisce.
Insomma, un fatto di cronaca – per fortuna a lieto fine – come quello di San Donato nella vita di noi che non eravamo lì a viverlo, ma che vi abbiamo assistito tramite la copertura dei media che ne è stata fatta, potrebbe farci parlare insieme ad un figlio del bene e del male (argomento più che mai necessario per chi sta crescendo) oppure di razza, religione, invasione e confini da presidiare. Ognuno faccia la sua scelta.