Fumo, lamiere contorte, lampeggianti blu ovunque e sirene, tante incessanti sirene. E poi lo sguardo stralunato dei vigili del fuoco accasciati che hanno finito il loro turno, ma non lasciano il luogo dell’incidente, per solidarietà coi compagni e perché davanti a tragedie del genere non si può togliersi il casco e andarsene a casa come si trattasse di routine. Non ce la fai. “Sì, è vero, siamo allenati dai tanti incidenti che avvengono nelle nostre strade, ma non capita di contare tante vittime tutte insieme. Una cosa mai vista”, ci dice il comandante provinciale dei vigili del fuoco di Venezia, Mauro Luongo, con voce esausta. Alla fine il conto dei morti è pesantissimo: 21 corpi senza vita, più 15 feriti, cinque dei quali gravi. Tra loro anche due bambini e tantissimi giovani.
L’autobus bianco è ancora lì, rovesciato ruote all’aria e semischiacciato dall’impatto col suolo: un tragico volo di dieci metri, dopo aver sfondato la recinzione del cavalcavia “Vempa” di Mestre. Poi l’incendio.
La storica sopraelevata che mostra tutti i segni del tempo, passa a fianco dei binari, vicino alla stazione ferroviaria, il guardrail divelto. E’ qui, a due passi dalle rotaie, ai piedi del viadotto che collega Venezia con Marghera e la Tangenziale, che è finita la corsa del bus elettrico della società “La Linea”, che stava effettuando un "servizio atipico", cioè una corsa prenotata da privati. Trasportava 40 turisti a Venezia. Doveva essere un giorno di festa per quei visitatori, ospiti del camping Hu, ex Jolly, di Marghera: stavano tornando dalla città lagunare, magari vista per la prima volta nella loro vita. Negli smartphone i tanti selfie a San Marco e sul Canal Grande, negli occhi ancora i colori della Serenissima. C'erano tedeschi, francesi, croati e tanti ucraini, da quanto si può capire dai passaporti ritrovati nel bus. L’autista era l’unico di nazionalità italiana, si chiamava Alberto Rizzotto, 40 anni e viveva a Tezze di Piave, in provincia di Treviso. Con un’esperienza di sette anni di guida già accumulati.
La dinamica dell’incidente, invece, non è ancora stata accertata: l’ipotesi che rimbalza tra soccorritori e cronisti è che possa essersi trattato di un malore improvviso. Ma solo la visione delle immagini registrate, già acquisite dal magistrato, potrà far luce sulle cause di quello che è, a nostra memoria, l’incidente stradale più grave di sempre in Veneto. Qualcuno ricorda tra i presenti che nel 2016 un altro pullman con una comitiva di studenti ungheresi di ritorno in patria si schiantava e s’incendiava sull'autostrada A4, in provincia di Verona. I morti in quell’occasione furono sedici. Ma tre anni prima 40 persone perirono in un pullman che precipitò in un altro viadotto, stavolt a ad Acqualonga, sull'autostrada A16, nel comune di Monteforte Irpino. A causare il disastro fu un guasto ai freni in un tratto in discesa che fece precipitare per quaranta metri il mezzo. Si tratta della più grave tragedia autostradale italiana. Anche stavolta s’è trattato di un cavalcavia.
Pare che tra i primi soccorritori ci sia stato anche un giovane arrivato dal Gambia, operaio alla Fincantieri, che dista da qui poco più d’un chilometro, che s’è gettato tra le fiamme per cercare di salvare qualcuno. Ma di lui non c’è traccia. I pompieri del primo turno stanno ancora dietro i teloni luccicanti stesis a chiudere la vista. Il pullman sta per essere portato via: le batterie finalmente si sono raffreddate. Così le dirette tv stanno per esaurirsi, mentre le prime salme vengono trasportate all’obitorio. Un sacerdote alza i nastri bianchi e rossi che delimitano la zona interdetta, per tornarsene a casa, stravolto. “Non m’ha chiamato nessuno, sono venuto perché ho sentito di dover essere qui anch’io. Ho benedetto le vittime e ho pregato in silenzio”, spiega don Augusto, della parrocchia del Duomo di Mestre. La morte l’ha vista altre volte; ma 19 corpi in fila sotto i teli bianchi e gialli, ai piedi dei vecchi piloni di un cavalcavia non li dimenticherà mai più.