L'istituto Dar Comboni, al Cairo. Foto di Romina Gobbo.
Il Cairo, Egitto
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C’è anche padre Claudio Omar Uassouf fra chi ha studiato all’Istituto Pontificio di lingua araba e cultura islamica “Dar Comboni”, in Egitto, al Cairo. E se il suo nome non risulta conosciuto ai più, sicuramente molto potrà dire il nome di chi l'aveva mandato a studiare, Jorge Mario Bergoglio, allora provinciale dei gesuiti in Argentina. Aveva capito l’importanza della preparazione per i missionari destinati ai Paesi arabi. All’epoca (fine anni Ottanta), l’Istituto si trovava in un'altra parte della capitale egiziana, a Sakakini. Ma la guerra in Sudan provocò un grande afflusso di profughi, che furono inviati in quella parrocchia. Perciò i padri comboniani decisero di spostarsi, e costruirono la nuova scuola in via Ahmed Sabri, località Zamalek. La nuova sede divenne operativa nel 1994. Gli studenti aumentavano di anno in anno, perché non erano più solo comboniani, anche altre congregazioni cominciarono a mandare i confratelli a formarsi. Di pari passo, aumentavano le esigenze; si era capito che la lingua da sola non bastava, bisognava anche conoscere la cultura e la storia mediorientale. Nel ’97, l’Istituto egiziano concluse un accordo con il Pisai (Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica) di Roma, per fornire una programmazione comune. Gli studenti frequentavano il primo anno al Cairo, gli altri due a Roma, e conseguivano la licenza in Studi arabi islamici. Nel 2005 l’accordo è terminato, perché “Dar Comboni” è stato riconosciuto dal Vaticano come Istituto Pontificio, e oggi offre il Baccalaureato, ma la collaborazione con il Pisai non è mai venuta meno.
«I nostri studenti sono per la gran parte preti o religiosi/e, ma non solo – spiega il comboniano kenyota padre Simon Mbuthia, vicedirettore di “Dar Comboni” -. All’inizio erano soprattutto appartenenti alle congregazioni missionarie che lavoravano nei Paesi arabi. Attualmente, i più presenti sono francescani, mandati dal custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, domenicani, agostiniani, ed appartenenti alla Società delle Missioni Africane (Sma). Negli ultimi anni, sono arrivati anche molti preti diocesani, soprattutto dall’Africa (Nigeria, Congo, Ciad, Kenya, Tanzania, Mozambico, Togo, Benin…), ma anche dagli Stati Uniti, dall’Italia, qualcuno dall’Indonesia, e anche dalla Cina. Non tutti sono cattolici, ci sono anche copti ortodossi; da questo punto di vista, siamo un istituto ecumenico. È evidente che con tutto quello sta accadendo nel Medio Oriente e nel mondo in generale, nasce il bisogno di saperne di più. Ai religiosi si sono aggiunti tanti studenti laici che magari hanno cominciato ad accostarsi all'arabo in Occidente, poi però scelgono di venire qui, perché c’è la possibilità di praticare la lingua nella quotidianità, perciò si apprende più velocemente. Poi ci sono persone che necessitano di imparare per poter lavorare nelle multinazionali, nelle Organizzazioni governative e non, o nelle ambasciate».
L’obiettivo è l’apprendimento dell’arabo classico (Standard Arabic Language) e la conoscenza della cultura islamica, in un percorso biennale. La struttura impiega cinque docenti fissi, specializzati in studi orientali, che svolgono il programma di cultura araba, e otto docenti arabi per insegnare la lingua, più altri insegnanti esterni, chiamati all’occorrenza. Gli studenti frequentano dal lunedì al venerdì, cinque ore al giorno. Dal 2003 ogni anno si sono iscritti in una trentina, più un centinaio di privatisti. Non sono richiesti requisiti particolare, ma una qualifica che, secondo il sistema del Paese di provenienza dello studente, permetta l’accesso all’università.
Padre Simon, il centro si interessa molto al dialogo interreligioso e multiculturale. Come può la cultura occidentale dialogare con il mondo arabo, soprattutto in questo periodo?
«Si può dialogare, ma ci sono tanti livelli: dialogo teologico, oppure di collaborazione quando si tratta di affrontare problemi condivisi (relativi alla politica, all’economia…). E c’è quello che per me è il dialogo più fruttuoso, ovvero quello della vita, dell’amicizia, della vicinanza, in occasione di matrimoni, funerali… Lì c’è la tolleranza vera, anche per questioni affettive. Se hai un amico musulmano, cominci a vedere anche l’Islam in maniera diversa. Quando ci sono conflitti interreligiosi, chi vive in un ambiente misto, è più tollerante, si fa influenzare meno. Il nostro Istituto non prepara solo dal punto di vista intellettuale, ma spinge anche gli studenti ad inserirsi nella società, a frequentare chi è di confessione religiosa diversa, non negando mai le differenze. Bisogna cercare ciò che c’è di buono nell’altro e a lui offrire ciò che noi abbiamo di buono».
Che cosa l’ha affascinata di Comboni?
«Comboni voleva evangelizzare l’Africa, che per lui era “nel buio spirituale”. “Africa o morte”, diceva. La porta d’Africa lui la varca per la prima volta nel 1857, con destinazione Sudan. E ha raggiunto l’importante ruolo di primo vescovo dell’Africa centrale. Voleva formare gli africani affinché fossero protagonisti della loro vita. Il suo impegno era per l’evangelizzazione e per la promozione umana. Qui a Zamalek, che all’epoca era proprietà dei comboniani, funzionava una delle scuole per gli schiavi che Comboni riscattava dai padroni; li educava e poi li faceva tornare in Sudan, pronti per la loro missione. La mia famiglia è cattolica e io fin da giovane desideravo lavorare con i poveri, e mi colpiva la scelta di chi portava la fede cristiana a chi ne era privo. Nella figura di Comboni ho trovato tutto questo; mi è piaciuta la sua vocazione alla prima evangelizzazione e all'istruzione dei poveri, e mi sono appassionato. Così, nel 1988 sono entrato nella congregazione. Anch'io ho studiato qui nel ’97, poi gli altri due anni a Roma. Ero destinato al Sudan, ma la guerra diventata razziale/religiosa, ha bloccato tutto. Il mio visto non è mai arrivato. Sono stato mandato in Egitto, prima in parrocchia con i profughi sudanesi, poi qui in Istituto. Evidentemente, per me il “profeta dell'Africa” aveva in serbo il progetto educativo».