«Non gioca perché non vuole». «No, non gioca perché non trova». «E’ uno da ammirare». Infuria il dibattito su Simone Farina nel calcio. Però nessuno segue l'esempio di Farina e nessuno lo vuole tra i piedi. Simone Farina, dopo che ha denunciato le combine nel pallone, per il pallone è diventato una patata bollente, da maneggiare velocemente per non scottarsi.
Dal giorno di quella denuncia, da quando la sua storia è diventata pubblica, Simone Farina non ha più detto una parola, è stato ospite alla consegna del Pallone d'oro e alla finale di Euro 2012, a suo modo è diventato un simbolo, ma scomodo. E, comunque, non ha una squadra in cui giocare. Farina probabilmente non voleva diventare un simbolo, voleva continuare a fare il calciatore, non nel Real Madrid, nel Gubbio o giù di lì, ma in un calcio e in un mondo in cui le partite si vincono e si perdono, senza sapere prima come vanno a finire.
Voleva fare il calciatore in un Paese normale. E infatti Simone Farina ha fatto quello che in un Paese normale sarebbe la normalità di ogni cittadino: denunciare un abuso, dove l’abuso è l’eccezione e la denuncia la norma. Se Simone Farina diventa un simbolo è un brutto segno. Vuol dire che vale la regola non scritta
per cui davanti a un abuso prevalgono nettamente quanti si voltano dall’altra parte.
Vuol dire che, al di là della facciata e dei proclami – a volte pure prematuri come la cacciata di Criscito dagli Europei perché coinvolto in un'indagine che poi l'ha riconosciuto estraneo ai fatti - , la sanzione sociale colpisce, nei fatti, chi tra la legalità e il malaffare sceglie la legalità. Vuol dire, anche se a parole dicono tutti il contrario, che al posto di Farina i più avrebbero scelto in silenzio il malaffare. Se le proporzioni fossero rovesciate, Farina non sarebbe un simbolo e giocherebbe senza problemi. Può non piacerci ma è questo lo specchio in cui, come pallone e come Paese, dobbiamo guardarci.