Se fossimo certi della capacità di sacrificio degli italiani tutti così come lo siamo di quella degli italioti del calcio, penseremmo che Mario Monti avrà vita facile.
Perché comincia il campionato
che non è del post Scommettopoli per la
semplice ragione che la brutta bestia è sempre
viva e si dibatte e combatte contro la fisiologicamente
debole giustizia, con sentenze
appellate, sentenze sospese, sentenze patteggiate,
ma che intanto alimenta la certezza
che la gente vuole credere alla pulizia della
casa o quantomeno alla bellezza dei tappeti
sotto i quali si scopa la polvere.
Perché tutto va avanti come se niente
fosse accaduto, i reprobi anche confessi
quasi quasi diventano nobili espiatori per
conto di tutti, e basta una partita ufficiale,
di quelle acri, per ripristinare il culto delle
vecchie commedie, questa volta pure con le
ombre cinesi di un Napoli che, disertando a
Pechino la premiazione della Supercoppa,
ha tolto qualcosa a tutti fuorché alla Juventus,
che ultimamente non è docente ideale di
rispetto di regole e usanze e magari sicuramente avrebbe temuto di più una presenza
in qualche vago modo imbarazzante.
In questo torneo poi sembra quasi che le
grosse squadre, limitandosi a un rafforzamento
non eclatante (la Juventus campione
attenta a rafforzarsi ancora senza sbilanciarsi
sul mercato), svecchiando ma risparmiando
(l’Inter massima delusa del 2011-2012 e
fuori dalla Champions League), praticando
l’austerity (il Milan di un Berlusconi impoverito
da fatti vari, materiali e morali), facciano
di tutto per invogliare a quel minimo di moralità
che sembra insito nella pratica anche
di striscio della povertà, anzi in questo caso
della ricchezza non sfrontata.
Recita da tempo
di crisi? Forse, perché fuori Italia c’è crisi
nell’economia tutta ma nel calcio si spende
eccome, c’è crisi ma nel calcio si punta ai
giovani valorizzando addirittura talenti italiani
che noi trascuriamo, c’è crisi ma si pensa
di saper ancora offrire pane calcistico nutriente
e non reso raffermo dalla corruzione.
Prendiamo questo ennesimo nostro contorsionismo
come una sfida, una prova,
un’ordalia: quanto e sino a quando il calciofilo
nostrano sa sopportare continuando a crederci?
Godiamoci la perla burocratica della
squalifica di Conte ex patteggiatore suo malgrado,
allenatore della Juventus che lui continua
ad allenare però con il vantaggio di vedersi
adesso le partite dalla tribuna, quando
si sa che dalla panchina non si capisce quasi
niente, tutto è schiacciato e confuso, manco
urlando ci si fa sentire, insomma ci si sta solo
per la scena.
Proviamo a tifare per la Roma
del vecchio maestro Zeman, antijuventino
abbastanza misteriosamente voluto dai padroni
americani.
Ringraziamo Prandelli che per l’azzurro
– siamo in tempo di qualificazione premondiale
– prende sì giovani italiani all’estero,
ma forse costringe i club ad accorgersi
dei talenti che hanno sotto cartellino. Aspettiamo
la nidiata di stranieri low cost dell’Udinese
per la cui saggezza e lungimiranza e competenza
ormai è un dovere tifare.
Prepariamoci
ai botti intermittenti di Napoli e Lazio più
che di Fiorentina e Palermo, salutiamo il ritorno
del Torino in A.
Basta e avanza per la solita
commedia, per il solito psicodramma di
cui noi non siamo soltanto spettatori.
E a chi insiste per sapere se davvero si può
credere, si deve credere (alla pulizia, ovvio:
sennò a cosa, al 4-2-4?), rispondiamo che si
deve, che a quanto pare anche si può, ma che
questo significa eccesso d’amore e non giusta
dose di onestà. E che ci sono molti altri modi,
decisamente più dannosi, assai meno teneri,
di essere amorevolmente stupidi.
Gian Paolo Ormezzano
CALENDARI E SPEZZATINI
Il campionato di Serie A
2012-2013 inizia questo
week-end e si concluderà
il 19 maggio 2013. Tre
i turni infrasettimanali di
mercoledì: il 26 settembre,
il 31 ottobre e l’8 maggio.
Quattro le soste previste:
una per le festività
natalizie – dal 30 dicembre
al 6 gennaio – e tre
(il 9 settembre, il 14
ottobre e il 24 marzo)
per le partite della
Nazionale impegnata nella
qualificazione ai Mondiali
del 2014 in Brasile. La
Nazionale di Prandelli
è inserita nel Girone B,
con Danimarca, Repubblica
Ceca, Bulgaria, Armenia
e Malta. Bulgaria-Italia
e Italia-Malta le prime
partite degli azzurri,
in programma il 7 e l’11
settembre prossimi.
Bandiere viventi, nel campionato che
viene, ne sventolano ormai poche:
Francesco Totti, Javier Zanetti, Gianluigi
Buffon... Le altre sono partite in cerca di
un viale su cui allungare, economicamente e
psicologicamente, l’ombra del tramonto. Le
bandiere in carne e ossa, che tanto piacciono
ai tifosi tutto sommato ancora tentati di credere
che di una maglia anche indossata a pagamento
ci si possa innamorare, sono scomode
nel calcio contemporaneo.
Quando si intridono di sudore e non sventolano
più con la leggerezza dei vent’anni
vengono vissute da allenatori e società come
un peso: un’eredità greve, cui si deve in
qualche modo riconoscenza, ma che rischia
di rallentare la corsa verso i risultati (pretesi
tutti e subito, sempre e comunque).
Sono difficili
da mandare in panchina, perché si chiamano
pur sempre Alex Del Piero, Alessandro
Nesta, Rino Gattuso e tendono a rimandare
il tempo di finire arrotolate dietro scrivanie
da dirigenti. È un salto difficile, la scrivania,
presuppone la consapevolezza di essere diventati
improvvisamente adulti: non è facile
sostituire il pallone con la cravatta.
I campioni
sono bambini infiniti, non si rassegnano
facilmente a smettere di giocare.
Ma il calcio del 2012 corre: ha fretta di concludere
affari e risultati, non si perde in
smancerie romantiche.
Il mercato suona altrove
sirene di petrodollari, troppo allettanti
per essere ignorate e chi vive del gioco, magari
sporco e squallido, si adegua: si adeguano i
presidenti che comprano e vendono secondo
convenienza e fanno contratti sempre più
corti alle loro bandiere sdrucite che pure hanno
dato tanto (un modo come un altro per indurle
elegantemente a farsi da parte).
Si adeguano gli allenatori che fanno del loro
meglio per lasciare i debiti di riconoscenza
fuori dalla porta: chi ha dato ha dato, chi ha
avuto ha avuto, scurdammoce ’o passato, anche
se ha le sembianze di Alessandro Del Piero.
Si adeguano i calciatori, che si pongono sempre meno il problema di resistere alle offerte,
forse irrinunciabili, frenetiche e straniere
dei magnati del pallone che conta sul mercato
(aperto fino al 31 agosto).
Magari sarebbe
più elegante evitare di dire: «Era la maglia che
sognavo da bambino» a ogni giro di giostra.
Ma a chi gioca come Zlatan Ibrahimovic si perdona
la bugia al primo gol e se gli si allunga il
naso non si nota neanche tanto.
Resta il fatto che Alessandro Nesta gioca fasciato
nella maglia blu del Montreal Impact,
dall’altra parte dell’Atlantico, che Gattuso si
danna con la passione di sempre nel Sion ai
vertici del campionato svizzero e che Alex Del
Piero s’è dato qualche altro giorno di tempo
per decidere dove va a finire il cielo, se sarà il
caso di guadagnarne un altro pezzettino in
una nuvola straniera o tornare definitivamente
alla terra di tutti.
Risolto da tempo il problema
di mantenersi, resta (a tutti i grandi
pensionandi) quello di darsi un posto nel
mondo: un posto diverso da quello che spetta
ai reduci a vita, congelati nella foto eterna
di una gloriosa giovinezza perduta.
Attorno giovani calciatori crescono, l’ultima
amichevole della Nazionale, prima che si
faccia sul serio dal 7 settembre con la qualificazione
mondiale, ne ha visti in campo un
po’ e, pur perdendo, non hanno sfigurato. Di
Angelo Ogbonna (Torino), Mattia Destro (Roma),
Marco Verratti (Paris Saint-Germain) –
di cui si parla come il Pirlo del futuro – si sa
che hanno vent’anni o poco più e che come i
loro coetanei fuori nel mondo probabilmente
non avranno una maglia fissa, perché nel
calcio mordi-e-fuggi non si usa più.
E non solo perché non si trova più nessuno
capace di dire come fece un giorno Gigi Riva
«tenetevi i milioni io resto qui». Laddove
qui era Cagliari, la città che l’aveva adottato e
i milioni (in lire) quelli della Juventus che lo
voleva.
Oggi probabilmente nessuno lo direbbe
– forse neanche Riva, ma sarebbe bello
immaginare di sì –, perché nessuno capirebbe,
probabilmente nemmeno i tifosi che
amano vedere sventolare le loro bandiere a
vita, ma poi sono disposti ad ammainarle se
non servono più a vincere. Salvo gridare al
tradimento, se le bandiere se ne vanno di
spontanea volontà. Mai contenti dirà qualcuno.
Vero. Anzi no. Sono contenti di vincere.
Se occorre facendo finta di non vedere che se
n’è andato quel poco di romantico e di nostalgico
che c’era nel calcio che avevano sognato
da bambini.
O forse invece ha ragione Rino “Ringhio”
Gattuso che, dopo una vita a ringhiare in rossonero,
si chiede se non sia quello svizzero in
cui abita ora il calcio vero: «Dove devi farti le
cose da solo».
Come succede nella vita di tutti,
dove prima o poi anche i campioni arrivano.
Tanto vale allenarsi alla normalità, su un
campetto alla periferia del pallone: potrebbe
servire a non naufragare, tra qualche anno,
sulla prima isola degli (ex)famosi che passa.
Elisa Chiari
Nel segno dei giovani. Prandelli ha tracciato la strada, ora tocca seguirne l’esempio. L’Under 21, il primo baluardo. Setaccia i talenti, ne fa una squadra, li lancia verso la nazionale maggiore. Ciro Ferrara ha salutato, rispondendo alla chiamata della Sampdoria. E’ arrivato Devis Mangia, giovane anche lui, il tecnico che dovrà completare il lavoro del predecessore. Il materiale c’è, i problemi non mancano. Tanti giovani interessanti, alcuni finiti all’estero. Poco male, la strada è tracciata.
- Esordio col botto, gran vittoria con l’Olanda: impressioni?
"Positive, molto positive. C’erano tanti assenti, ne ho approfittato per
allargare il gruppo. La disponibilità dei club ci ha permesso di stare
insieme un po’ di giorni, il che ci ha aiutati non poco. Poi, i ragazzi
hanno fatto il resto.
Insigne, uno degli esempi più importanti: è tornato al Napoli, deve
convincere ad alti livelli".
- Secondo lei, è pronto?
"Ha le qualità, l’atteggiamento giusto, il talento di un ottimo
attaccante. Può giocare ad alti livelli".
- Spesso l’età ha rappresentato un freno: sbagliato?
"La carta d’identità non deve contare quando si scelgono i giocatori. I
club che hanno giovani di valore devono avere interesse a farli giocare.
Non può esserci differenza tra un giovane e un esperto: devono contare
le qualità, solo quelle".
- L’Italia può essere un esempio?
"Mi sembra lo sia già: Prandelli ha dimostrato come per giocare in Nazionale non conti l’età. Ha messo in campo i giovani, ha ottenuto
risultati".
- Club in crisi finanziaria, pochi investimenti sul mercato: e se fosse
arrivato il momento in cui si comincia a puntare sui vivai?
"Ci sono buoni segnali, anche importanti. Mi sembra sia stata imboccata
la strada giusta, da questo punto di vista".
- Idee per dare ulteriore impulso?
"Ho una mia idea: il salto di qualità nella cura dei vivai può essere
legato alle seconde squadre, come del resto succede da una vita in
Spagna, dove questo aspetto è tenuto in gran considerazione. Potrebbero
giocare in B o in Prima Divisione di Lega Pro contribuendo anche a dare
visibilità a quei campionati".
- Un modo per dare ai giovani più chance di giocare?
"Più si gioca e più si cresce: per i ragazzi è fondamentale. Preferisco
giocatori che vanno in campo con regolarità piuttosto che ragazzi
relegati in panchina da grandi squadre.
Deve essere un obiettivo anche dei ragazzi?
Assolutamente sì. Meglio per loro giocare con continuità piuttosto che
stare a guardare.
Anche a costo di andare all’estero?
Se la scelta è tra campo e panchina, va sempre preferito il campo".
Ivo Romano
Serie A al risparmio, niente più follie, tanti saluti ai tempi delle vacche grasse. C’è chi s’è svenato, spendendo e spandendo, per acquistare costosi campioni e pagare loro lauti ingaggi. E ora ha scoperto che è giunto il momento di tirare la cinghia, cominciare a risparmiare, cambiare politica societaria.
Nel club degli spendaccioni pentiti, spiccano Milan e Inter, costretti a tagliare le spese, soprattutto alle voce stipendi, anche nel rispetto del Fair Play Finanziario voluto da Michel Platini.
L’Inter aveva già venduto tanto (da Eto’o a Balotelli), ora ha preso a disfarsi di altri eroi del Triplete. E, soprattutto, non investe più sul mercato: niente arrivi di grido, complice l’assenza dalla Champions League (con conseguenti mancati introiti).
Il Milan a vendere ha cominciato adesso, ma in modo addirittura traumatico: via Ibrahimovic e Thiago Silva, incassando un bel po' di soldi e risparmiandone altrettanti di ingaggi futuri. Del resto, c’è sempre chi è più ricco e può permettersi di sborsare vagonate di soldi per prendere fuoriclasse. Russi, arabi, americani: il nuovo che avanza sul fronte del calciomercato, contribuendo a cambiare le carte in tavola.
Calcio italiano, siamo all’Anno Zero. Soprattutto sul mercato. Noi costretti a risparmiare, altri in grado di comprare. Quest’anno sul ponte di comando del mercato europeo hanno comandato Paris Saint Germain, Chelsea, Manchester United, mentre lo stesso Barcellona, pur alle prese con un’autentica voragine debitoria, ha fatto le sue (poche ma dispendiose) operazioni.
Ma al di là dei singoli club (che analizzeremo in seguito) sono gli interi movimenti calcistici a dimostrare come qualcosa sia cambiato.
C’è chi chiude in profondo rosso e chi con un attivo di bilancio (sul mercato). Nel secondo caso, l’Italia. Sì, dopo anni di spese pazze stavolta si chiude con segno +, unico tra i Paesi europei di avanguardia pallonara. I numeri parlano chiaro, al netto di un mercato che non ha ancora esalato l’ultimo respiro (difficile, comunque, che la sostanza delle cose cambi): al momento la bilancia tra entrate e spese di mercato dei club di serie A fa segnare un attivo di circa 15 milioni di euro. Un’inversione di tendenza, rispetto al passato più o meno recente.
La stessa inversione di tendenza fatta registrare dalla Liga spagnola, sempre che il Real Madrid non piazzi clamorosi colpi dell’ultima, che comunque non riuscirebbero a cancellare la nuova politica al risparmio. Solo la Liga, infatti, fa meglio della serie A: 32 milioni di attivo di mercato, senza grosse spese dei due big-club e grazie al quasi immediato disimpegno degli sceicchi sbarcati un paio d’anni fa a Malaga.
Italia e Spagna incassano, gli altri spendono, in barba al Fair Play di Platini. Tra gli altri maggiori tornei del continente, è ancora la Premier League inglese a farla da padrona nella corsa alle spese: oltre 200 milioni di passivo di mercato per i club del massimo campionato britannico. Seguono la Ligue 1 francese (- 94 milioni, soprattutto per gli investimenti targati Paris Saint Germain) e la Bundesliga tedesca (poco più di 40 milioni).
Sul fronte dei club, è il Psg in testa alla classifica delle spese sul mercato estivo: 140 milioni in uscita (contro ben pochi in entrata). Seguono il Chelsea (80 milioni) e il Manchester United (54 milioni).
Tra le top-ten, solo due italiane: Juventus e Roma. Invece è un’italiana a comandare la classifica degli incassi da cessioni: il Milan, che ha portato in cassa 63,5 milioni. Bene anche il Genoa (terzo posto), l’Udinese (settimo) e il Napoli (decimo), che però ha un bilancio in sostanziale pareggio per via degli acquisti. Il dato resta, lampante: calcio italiano che vira verso il virtuoso. Meno spese sul mercato, più risparmi negli ingaggi.
Ivo Romano
Per la serie: provincialismo all’italiana. Campionato più povero, nazionale non più ricca. Limite agli extracomunitari, dopo il Mondiale sudafricano: per uno che usciva di scena solo un altro poteva fare il suo ingresso, non più due come accadeva prima del disastro sudafricano. Incassata la delusione, trovata la formula. Sempre all’italiana, naturalmente.
Norme poi abolite: la prima dopo anni di autarchia, la seconda dopo una sola stagione.
Norme con un unico obiettivo: limitare gli stranieri quando il calcio italiano non produce talenti autoctoni in grado di garantire risultati e visibilità. Che, poi, non sempre è vero. Un anno fa, record storico per gli stranieri in Italia: numeri mai visti prima. Eppure l’Italia di Prandelli, con un bel po’ di forze fresche in campo, ha fatto la sua bella figura.
E allora magari gli stranieri sono un problema, ma solo a metà. Certo, sono tanti. Il paragone con il passato remoto non è neanche proponibile: la legge Bosman ha cambiato le carte in tavola, la libera circolazione ha decuplicato il numero di calciatori stranieri in Italia. Resta un dato: l’anno scorso s’è raggiunto il top, in fatto di numeri. Basti pensare al numero totale, nel calcio italiano: 1.195, una marea di giocatori importati.
Manco a dirlo, trend crescente, soprattutto ai massimi livelli, quelli della serie A: 362 per una percentuale pari al 47,82 per cento, quasi al metà del totale, come mai era accaduto prima. Un anno prima si era attestati al 43,71, nella stagione 2009-2010 al 40,11, nel 2008-2009 al 37,94, nell’annata 2007-2008 al 38,72. In sostanza, quasi il 10 per cento in soli 5 anni. Senza dimenticare un altro elemento, altrettanto (se non più) significativo: ad analizzare i minuti giocati, si scopre che i calciatori d’importazione hanno giocato più degli italiani (il 52 per cento del totale contro il 48), altro primato storico battuto nella passata stagione.
L’autarchia non abita più qui. Un tempo c’erano le classiche eccezioni, quelle che confermano la regola. Ora sugli stranieri, per un motivo o per l’altro, ci puntano un po’ tutti. Naturalmente, con qualche differenza, spesso sostanziale nei numeri.
Tra le squadre di A più straniere spicca l’Udinese, che sui calciatori importati ha fondato un’autentica fortuna, grazie a un sistema capillare di reclutamento che consente al club friulano di acquistare giocatori a prezzo contenuto per poi rivenderli con sostanziosi guadagni. L’anno scorso, l’Udinese ha schierato il 65,71 per cento di calciatori stranieri, tanto da essere il club più esterofilo, davanti alla Lazio (63,16), al Palermo (58,54) e al Genoa (55,26). Sul fronte opposto, invece, comandava il Siena, la squadra più italiana della serie A con una percentuale di stranieri pari al 25 per cento, seguita dall'Atalanta (34,29) e dalla Juventus, che ha vinto lo scudetto schierando il 38 per cento di stranieri.
Quanto alla stagione che sta per cominciare, impossibile tirare le somme. Alla chiusura del mercato mancano ancora un bel po’ di giorni, solo allora si potranno dare i numeri per capire se il trend è confermato e le percentuali destinate a lievitare. Un dato, comunque, è già sicuro: una nuova colonia di stranieri è già sbarcata lungo il porto della serie A.
Con qualche differenza rispetto al passato, in nome del risparmio. Niente più top-player (termine molto in voga, dalle nostre parti) in arrivo dall’estero, anzi sono sempre più quelli che dopo aver assaggiato il nostro calcio vanno a cercare fortuna (e quattrini) altrove.
Samuel Eto’0 aveva inaugurato il nuovo trend, quest’anno l’Italia del calcio ha salutato campioni del calibro di Ibrahimovic, Lavezzi e Thiago Silva. Tra autentiche rivoluzioni (la Fiorentina smantellata e ricostruita è molto basata sui nuovi stranieri), altre comunque sostanziali (la Roma, ad esempio), un bel po’ di giovani e alcune autentiche scommesse, si dovrebbe arrivare a ben più di 50 nuovi stranieri (altri, però, sono partiti). E l’invasione continua.
Ivo Romano