La camorra che spara, ancora. Con violenza, prevaricazione. Terrorizza, minaccia. Ruba il futuro e la speranza. Anche dei bambini. Gli agguati, le “stese” - come quella davanti alla chiesa di don Maurizio Patriciello a Caivano in provincia di Napoli – le dimostrazioni di forza fatte con le armi da giovani, sempre più giovani, affiliati alle cosche. E' questo lo scenario di una città, Napoli, che sembra non riuscire a lasciarsi alle spalla il dramma e l'orrore della malavita. “In certi momenti e in alcuni contesti socio-criminali sembra quasi che il tempo a Napoli e in Campania si sia fermato riproponendo analogie che fanno riflettere sull'immanente presenza della camorra".
La riflessione è dello scrittore Antonio Mattone, portavoce a Napoli della Comunità di Sant'Egidio, direttore dell'Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi e autore del libro La vendetta del boss - L'omicidio di Giuseppe Salvia (Guida Editori, 522 pagine, 20 euro), riguardo la recrudescenza criminale delle ultime settimane nelle periferie e nella provincia di Napoli. Da Ponticelli, quartiere orientale del capoluogo campano oggi teatro di una nuova, ennesima faida tra boss, “proveniva – racconta Mattone - la batteria di fuoco che uccise il 14 aprile del 1981 il vice direttore del carcere di Poggioreale" al quale lo scrittore napoletano ha dedicato il suo ultimo lavoro. Si chiamava Giuseppe Salvia ed era un servitore dello Stato. Un uomo onesto. Un martire per la legalità.
La camorra di oggi non è certo quella di 40 anni fa, quando la guerra tra la Nco del boss Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia fece migliaia di morti, una guerra che si combatteva anche tra le mura di un penitenziario. Avere il predominio all’interno del carcere significava per l'organizzazione criminale aumentare il prestigio criminale e il potere. “Non dimentichiamo che Cutolo, il boss di Ottaviano, ha costruito il suo impero del male proprio durante la sua permanenza nella casa circondariale di Poggioreale. E in quel contesto difficile segnato dalla corruzione e dalla violenza, Giuseppe Salvia, cercava di far rispettare le regole e di impedire che il “professore” diventasse il padrone assoluto del penitenziario attraverso la persuasione dei soldi e del terrore che era capace di incutere”.
Salvia decise di non arretrare, di non chinare il capo dinanzi alla prevaricazione della camorra. “Venne lasciato solo dal Ministero e dalla direzione del carcere, a combattere l'arroganza e il potere del boss di Ottaviano – spiega l'autore - che reagì prima schiaffeggiando pubblicamente il funzionario e poi decretandone la morte". Nelle oltre 500 pagine del libro, si racconta il contesto di quegli anni segnati anche dal terrorismo e dal terremoto, viene descritta la vita all’interno del carcere di Poggioreale raccontata attraverso i registri degli eventi critici che Mattone ha potuto consultare. Una documentazione inedita che descrive i ritrovamenti di armi di ogni specie, e dove vengono ricostruiti efferati omicidi come quelli di Antonino Cuomo, del boss calabrese Mico Tripodo e delle stragi avvenute nella notte del terremoto del 23 novembre 1980 e nella replica del sisma il 14 febbraio dell'anno successivo. “Quella di Salvia è la storia di un fedele servitore dello Stato che pur sapendo di essere in una situazione di pericolo non si tirò indietro e compì il suo dovere fino alla fine. Venne lasciato solo anche da morto - sottolinea Mattone - infatti il suo funerale non fu officiato dal cardinale Ursi, il sindaco Valenzi non sentì l'esigenza di andarci e, all'ultimo momento, anche il ministro di Grazia e Giustizia Sarti non vi partecipò. Inoltre, cosa più grave, lo Stato non si costituì parte civile contro gli assassini al processo".
Quello stesso Stato che a distanza di due settimane sarebbe andato proprio da colui che aveva ordinato l’omicidio del vicedirettore per chiedergli di intervenire presso le Brigate Rosse per far liberare l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo. “Sono rimasto colpito che a distanza di 40 ci sono stati dei testimoni che non hanno voluto parlare. Omertà? Paura? Complicità con i camorristi? Vergogna per averlo lasciato solo?” si chiede l'autore.
Chi per la prima volta ha parlato è stato Cutolo stesso che prima di morire in un carcere di massima sicurezza ha rilasciato una lunga intervista a Mattone: "Sì, l'ho fatto io l'omicidio Salvia" disse il boss allo scrittore, l’unico segreto che il boss non si è portato nella tomba. Condannato all’ergastolo per questo delitto si era sempre proclamato innocente. Dopo 40 anni la camorra ha cambiato pelle, da granitici blocchi criminali di famiglie rivali si è trasformata in un “pulviscolo malavitoso” come è stato definito nell'ultima relazione della Dia al Parlamento. “Le nuove leve della criminalità sono cresciute con il mito di boss come Cutolo – spiega Mattone - , ma non ne hanno l’autorevolezza e per apparire e sentirsi qualcuno fanno le stese e agiscono in branco facendo rumore e violenza. Anche se fanno meno morti sono altrettanto pericolose”.
E una dimostrazione sono gli oltre 20 colpi esplosi all'impazzata davanti a una chiesa, incuranti del rischio di uccidere anche bambini. "Oggi, 40 anni dopo la sua morte, Giuseppe Salvia resta una figura attuale che parla alle giovani generazioni e rappresenta un modello di mitezza e coraggio, di fermezza e umanità, di dedizione e passione per il proprio lavoro. E mette in guardia dall'intreccio perverso tra malavita, corruzione e indifferenza, un mix micidiale che continua a rubare la speranza e a mortificare il desiderio di riscatto della città di Napoli e di tanti suoi abitanti”.