Cinematograficamente parlando, non c'è dubbio che il più bel film visto in questo primo scorcio del Festival di Cannes sia Mr. Turner del regista britannico Mike Leigh (già premiato per titoli come Segreti e bugie, Topsy-Turvy, Vera Drake): coinvolgente biografia del pittore ottocentesco William Turner, interpretata da quel grande attore, troppo spesso sottovalutato, che è Timothy Spall. Una pellicola in costume di superba fattura che racconta come sia, ieri come oggi, vivere per l'arte.
La Croisette non poteva però restare immune dai venti di crisi sociale, economica e politica che soffiano sull'Europa e la vicina Asia. Tra critici e addetti ai lavori c'è perciò molta attesa per lo sguardo sull'Irak di oggi lanciato dal regista Laurent Bécue-Renard con Des hommes et de la guerre: per la documentazione della crisi ucraina fatta in Maidan da Sergei Loznitsa e soprattutto per la narrazione della guerra di Cecenia nel 1999 (di cui così poco ancora si sa) portata sullo schermo in forma di parabola con The search da Michel Hazanavicius, il regista francese di origini lituane vincitore di Oscar e di premi in tutto il mondo con The artist (film in bianco e nero ai tempi del muto) dal quale ha ripreso la splendida attrice protagonista, Bérénice Bejo.
Intanto, violenze sui civili e abomini causati dall'integralismo religioso hanno già sparso il loro fiele sulla Croisette grazie a due titoli che non resteranno certo nella memoria per le loro qualità filmiche ma che non potranno essere dimenticati per il loro valore di testimonianza. Timbuktu, in gara per la Palma d'oro sotto la bandiera della Mauritania, rappresenta un atto di coraggio del regista Abderrahmane Sissako che ha voluto raccontare l'insensatezza quotidiana e la violenza sui più deboli provocate dall'integralismo islamico che si abbatte, improvviso e inaudito, sulla vita civile. Tutto accade a Timbuktu, città dall'antica cultura, povera eppure ricca di umanità, che si ritrova inopinatamente sotto il tallone della repressione degli invasori talebani.
E' il 2012 e nella capitale del Mali non è più permesso ridere per strada, giocare a pallone, fumare una sigaretta, bere un the o ascoltare musica. Tutto e sotto controllo, vagliato, sottomesso. A cominciare dalle donne costrette a portare in pubblico non solo il velo ma anche i guanti e i calzini. E per coloro che disobbediscono o trasgrediscono le punizioni sono tremende: mutilazioni e lapidazioni. La violenza insensata, feroce e ridicola della jihad è durata solo un anno, ma non verrà dimenticata.
Perfino più atroci le immagini e le sensazioni suscitate da Eau argentée
- Autoritratto della Siria, docu-film firmato fuori concorso dal
regista siriano Ossama Mohammed (esule a Parigi dal 2011 quando, avendo
parlato a Cannes del dramma del suo Paese, è stato condannato a morte in
contumacia) a quattro mani con Wiam Simav Bedirxan, coraggiosa ragazza
siriana d'origini curde. Il risultato è tutto il contrario di un film:
non c'è struttura, né sceneggiatura, tanto meno personaggi. Ma ci sono i
veri protagonisti della tragedia siriana di questi ultimi due anni:
centinaia di giovani e di persone comuni che hanno filmato le battaglie
per strada, le repressioni dei militari del regime di Hassad, le
esecuzioni sommarie, le vessazioni su donne e bambini, le stragi: tutto
quello che le Tv occidentali non hanno potuto (o voluto) far vedere.
Il
più crudo e scioccante reportage su che cosa significhi oggi, nel terzo
millennio, ritrovarsi improvvisamente in mezzo a una guerra civile.
“Ho preso una telecamera: il regime la considera l'arma più pericolosa”,
dice via internet la giovane Simav al regista Ossama, che se ne sta a
Parigi. “Se tu fossi qui a Homs cosa filmeresti?”. Comincia così
l'irripetibile sodalizio da cui è nato questo dicumento storico. I
manifestanti torturati, i bambini sfigurati, i cadaveri ammucchiati
nelle strade, perfino cani e gatti mutilati dalle esplosioni: mille e
uno filmati trasmessi attraverso You-Tube e montati asetticamente dal
regista.
Un documentario poetico, scioccante, a volte inguardabile che
ha scosso la Croisette suscitando reazioni contrastanti. Il rischio,
dopo, è di sentirsi la coscienza lavata e di correre in sala a vedere un
thriller o un cartoon, pur di riassaporare la voglia di vivere.
D'altronde, se le grandi potenze occidentali e neppure l'Onu sono
riusciti a far nulla per fermare la furia omicida del regime di Hassad,
può riuscirci il Festival di Cannes?