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venerdì 16 maggio 2025
 
 

A Cannes va di moda il classico

24/05/2012  Al Festival tornano, dai gangster agli adolescenti ribelli, i grandi filoni della storia del cinema. I film che vedremo nei prossimi mesi.

In quel gustoso minestrone di film che è la selezione ufficiale messa in tavola sulla Croisette dal 65° Festival di Cannes, non è difficile individuare un paio di ingredienti che con il loro sapore caratterizzano l'annata. Della trentina di pellicole in cartellone, siano esse in gara che fuori concorso, non poche faticheranno a lasciare traccia di sé per quell'eccesso di lunghezza e, a volte, di verbosità che i festivalieri magari riescono a sopportare (in omaggio alla perizia tecnica del regista o del direttore della fotografia) ma che al botteghino non trovano indulgenza. Ed è evidente come i titoli comunque riusciti siano quelli che hanno saputo rileggere in chiave contemporanea certi filoni cinematografici classici.

Si sono rivisti gangster spietati regolare a pistolettate i loro conti per il colpo a una bisca clandestina, sullo sfondo però dell'ultima campagna elettorale Usa, mentre Obama e McCain raccontavano in Tv un'America lontana da certe realtà (Killing them softly dell'australiano Andrew Dominik con un irresistibile Brad Pitt nei panni del killer). Si è rivisto il puritanesimo della brava gente anni '60 del New England, con tanto di scout e guardacoste, alle prese con le ribellioni adolescenziali (Moonrise Kingdom di Wes Anderson).

Non sono mancati i distillatori clandestini e i trafficanti di alcol ai tempi di Al Capone e del Proibizionismo (i fratelli Bondurant in Lawless di John Hillcoat, ancora un australiano innamorato degli States). Di violenza sui minori, almeno presunta, e di caccia alle streghe parla La chasse del danese Thomas Vinterberg (il talentuoso regista di Festen). E il grande ribelle Ken Loach ha dato l'ennesimo saggio di bravura e di leggerezza, nel raccontare la working class e lo sbandamento dei giovani inglesi di fronte alla crisi, con The angels' share (commedia superalcolica, interpretata da quasi esordienti, che ha regalato finalmente sorrisi a critici e spettatori).

È indubbio, però, che chi voleva mirare più in alto abbia scelto di puntare sull'adattamento di romanzi potenti ed evocativi. Più di tutti lo ha fatto il brasiliano Walter Salles che ha osato portare sullo schermo On the road, la bibbia della beat generation pubblicata nel 1957 da Jack Kerouac. Un'impresa tentata più volte in passato come produttore da Francis Ford Coppola, che aveva comprato i diritti del libro (gli disse di no perfino Godard) e realizzata dopo quarant'anni da suo figlio Roman. Con esiti controversi: immagini splendide da un capo all'altro degli Stati Uniti ma freddezza di contenuti, con la ribellione ai conformismi sociali dei protagonisti che non riesce a creare empatia nello spettatore (magari anche per colpa della carineria dei protagonisti Garrett Hedlund, Sam Riley nonché la Kristen Stewart reduce dal successo planetario di Twilight).

Ancora più fallimentare il bilancio dello statunitense Lee Daniels (forse sopravvalutato dopo i due Oscar vinti nel 2010 per Precious, storia estrema di una ragazza nera obesa e analfabeta). Il suo Paperboy, ispirato all'omonimo romanzo di successo di Pete Dexter, non risparmia nulla allo spettatore assommando nella stessa storia pregiudizi razziali, maschilismo, sani per quanto laceranti impulsi adolescenziali e perversioni adulte. Tutto sullo sfondo di una vera vicenda giudiziaria del 1969: due cronisti che sprofondano nelle paludi della Florida, cercando di provare l'innocenza di un condannato alla sedia elettrica sotto l'incalzare, seducente, di una donna che usa il sesso come strumento di persuasione. Lei è Nicole Kidman. Gli altri sono Zac Efron, Matthew McConaughey e John Cusack.

Ma i bei film non nascono con l'addizione degli ingredienti, bensì quando fanno scattare la moltiplicazione delle emozioni. Insomma, tanto clamore per nulla. Più riuscita, invece, l'operazione messa in piedi dal canadese David Cronenberg, capace di materializzare sullo schermo la surreale discesa agli inferi del giovane finanziere d'assalto protagonista di Cosmopolis, libro denuncia delle bolle speculative di Wall Street e dell'aridità del capitalismo scritto da Don DeLillo dieci anni prima che la crisi esplodesse. Ci volevano spirito visionario e perizia tecnica per raccontare il marciume della finanza dall'interno di una limousine bianca che tenta faticosamente di attraversare Manhattan. E soprattutto un interprete duttile ed estremo, come si è rivelato essere la neo star Robert Pattinson (anch'egli reduce dai trionfi di Twilight ma capace, lui sì, di mostrare innegabili doti di attore dal sicuro futuro).

Tuttavia, di tutti gli adattamenti letterari quello che più ha colpito il cuore degli addetti ai lavori è opera di Bernardo Bertolucci che, per quanto immenso come regista (già decorato nella sua lunga carriera con Oscar, Palme d'oro, Leoni, David e ogni altra sorta di premio) ha avuto la sensibilità e l'umiltà di mettersi al servizio della vicenda raccontata da Niccolò Ammaniti in Io e te, coinvolgendo lo scrittore nella stesura della sceneggiatura.

Risultato? Una storia minimale ma potente, che cattura chi guarda poco a poco, di cui è protagonista un quattordicenne foruncoloso e difficile, Lorenzo, alle prese inaspettatamente con una venticinquenne all'apparenza sicura ed emancipata, Olivia, ma in realtà non meno fragile di lui. Ciò che complica la faccenda è che i due sono fratellastri: figli dello stesso padre e di madri diverse. Non si vedono da anni, non si conoscono quasi. Eppure, nella penombra dell'enorme cantina di casa dove si nascondono per giorni (lei per disintossicarsi e tentare la risalita, lui per non andare in settimana bianca con i detestati compagni), finiranno per trovare l'uno nell'altro quella complicità familiare, quell'affetto profondo che gli adulti non hanno saputo dar loro.

E il finale, appena venato di speranza, è un atto di fiducia nella tanto bistrattata gioventù di oggi. Pochi sanno capire e raccontare le turbolenze adolescenziali come Bertolucci, che non è nuovo all'interagire sullo schermo di due soli interpreti (basti pensare a Ultimo tango a Parigi ma anche al più recente L'assedio). Che dire? Meriterebbe la Palma d'oro se non fosse che il Festival ha messo il suo film fuori concorso. D'altronde, l'anno scorso lo stesso Bertolucci era stato già omaggiato con la Palma d'oro alla carriera. Inopportuna, insomma, una doppietta italiana.

Oltre al coté letterario, l'altro ingrediente forte di questa 65° edizione è senz'altro la vecchiaia. Un po' perché una bella fetta del pubblico delle sale cinematografiche, specialmente dentro la settimana, è fatta da over 60. Un po' perché molti grandi registi sono anch'essi ormai entrati della terza età. Soprattutto, forse, perché i problemi e i sentimenti di chi oggi è avanti con gli anni, ma sente ancora forte dentro di sé l'anelito alla vita, sono i temi che uniscono trasversalmente francesi e italiani, spagnoli e tedeschi, danesi e austriaci. Tutte quelle popolazioni europee cioè che, grazie al benessere e alle conquiste sociali, hanno oggi un'aspettativa di vita sempre più lunga. Ma a che scopo vivere di più se si è ignorati, bistrattati o non amati?

Paradossalmente, colui che al di là delle buone intenzioni è riuscito meno a raccontare tutto ciò sullo schermo è Alain Resnais, il cineasta più anziano sulla Croisette con i suoi imminenti novant'anni. Utilizzando gli attori della sua solita compagnia di giro (Michel Piccoli, Sabine Azéma, Lambert Wilson, Anne Duperey) più un'altra ventina di bravi interpreti francesi, chiamati a impersonare sé stessi, l'ex vate della Nouvelle Vague mescola in maniera elegante e spiritosa la loro vera vita passata con le prove dei ruoli per Orfeo ed Euridice, celebre dramma di Anouilh. Ai più questo suo Vous n'avez encore rien vu è parso un'accozzaglia di personaggi con poco senso. Senso, invece, che viene a galla se si guarda il film con l'occhio affettuoso e spiritoso di colui che dà a modo suo l'addio al cinema.

Se nella pellicola di Resnais la vecchiaia resta sottesa nella chiave di lettura, entra invece esplicitamente in gioco in Like someone in love, del maestro iraniano Abbas Kiarostami (quello di Sotto gli ulivi e de Il sapore della ciliegia, Palma d'oro proprio qui a Cannes quindici anni fa). Ciò che ha spiazzato gli addetti ai lavori è stata, forse, la scelta di abbandonare il racconto del suo Iran, tanto temuto all'estero quanto poco conosciuto nella sua cultura popolare millenaria, per narrare invece una storia di senilità in Giappone, tanto piccola quanto universale.

Se infatti la protagonista è la giovane Akiko, studentessa di sociologia a Tokio che di notte fa la escort, il motore della storia è l'ottuagenario cliente (lo splendido Tadashi Okuno, attore sconosciuto da noi) il quale, piuttosto che il suo corpo, vorrebbe la sua compagnia e un po' di verità. La faccenda finirà male per colpa del maschilismo di chi ha ben altre mire sulla giovane Akiko. Resta però la sensazione di delicatezza e di vitalità sprigionata dal vecchio personaggio.

Qualità, la delicatezza delle immagini sullo schermo, che non appartiene per definizione a Michael Haneke, il rude e barbuto cineasta austriaco già vincitore tre anni fa della Palma d'oro per Il nastro bianco. Eppure, questo settantenne entomologo dell'animo umano sa sconvolgere a tal punto l'occhio dello spettatore da lasciare poi uno strascico di sentimenti contrastanti, di riflessioni piene di calda umanità se non proprio di speranza.

L'ennesimo esempio è questo suo Amour in cui due vecchi coniugi, Anne e Georges (i meravigliosi Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, entrambi ultra ottantenni), accomunati da una vita vissuta insieme e dall'insegnamento della musica, conducono un'esistenza serena e ricca di complicità capace anche di sopperire alla lontananza dell'unica figlia, anche lei musicista e perennemente all'estero (la sempre brava Isabelle Huppert, attrice feticcio di Haneke).

Tutto cambia, in peggio, quando Anne viene colpita da un ictus. La semiparesi, l'ospedale, il rientro a casa con la necessità di rivoluzionare ogni piccolo gesto quotidiano. Soltanto chi ha avuto o sta vivendo in famiglia il dramma della malattia può capire. E Haneke non risparmia nulla, allo spettatore. Georges aiuta la sua Anne, geloso di qualsiasi intervento esterno, in tutti i bisogni quotidiani. Anche i più intimi e sgradevoli. E' lui a lavarla, cambiarla, a prepararle le pappe, ad accarezzare le mani per confortarla, a raccontarle storie per farla addormentare. E' il suo modo per dichiararle ancora tutto il proprio amore.

Ma il declino fisico per la malattia è inarrestabile. E a un certo punto sarà proprio Anne, straziata dall'immobilità del suo corpo prigione, a chiedergli con sguardo duro di porre fine al suo calvario. Georges non vuole, non può. Cerca d'insinuare gocce d'acqua tra le labbra ostinatamente serrate di lei. Non si tratta di una storia lontana dalla realtà, ce lo dicono le cronache dei giornali e l'esperienza quotidiana di tanti tra noi. E se la vicenda di Georges e Anne si conclude tragicamente, non sarebbe intelligente chiudere il discorso con una frettolosa sentenza moralistica di condanna.

È vero, né l'eutanasia né il suicidio sono ammissibili, ma fanno parte della natura umana. E Haneke racconta con sensibilità estrema la crudeltà di un lungo amore che la vecchiaia e la malattia consumano fino alla morte. E se nel film non c'è la consolazione della fede, non ci sono l'accettazione del dolore e della morte, forse è perché nessuno può imporli. Neppure un regista ai suoi personaggi. Sta a chi guarda, a ognuno di noi cercare e trovare dentro di sé il senso di ogni cosa, anche della fine più dolorosa.

A pochi giorni dal calar del sipario sulla Croisette, Amour dell'austriaco Michael Haneke pare essere il favorito per il Palmarès 2012. A ragione. Anche se il Festival non è solito dare troppi premi allo stesso titolo e più ancora del regista, a nostro parere, meriterebbero la Palma d'oro come migliori interpreti proprio Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant: lei ancora bellissima e leggera a 85 anni suonati; lui, un tempo vero adone, segnato dalle rughe e dal dolore (la morte pochi anni fa della figlia Marie a causa delle percosse del convivente), eppure capace di mettere tutto ciò davanti alla cinepresa. È la loro vecchiaia, consapevole e coraggiosa, la vera vincitrice sulla Croisette.

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