Con la serata di gala dedicata al nuovo film di Woody Allen Midnight in Paris, si è aperto mercoledì il 64° Festival di Cannes. Un’edizione che si annuncia a tutta “grandeur”, dopo qualche anno un po’ sotto tono. Merito in partenza del cast rutilante del regista newyorkese: Adrien Brody, Rachel McAdams, Owen Wilson (assente solo la “prémière dame” Carla Bruni). Così come della sfilata di nomi famosi che fanno parte della giuria: dal presidente Robert De Niro agli attori Jude Law e Uma Thurman (presentati dalla madrina della serata Mélanie Laurent, la deliziosa biondina di Bastardi senza gloria). E soprattutto per gli acclamati omaggi a due grandi della settima arte. Al regista Bernardo Bertolucci, festeggiato con la Palma d’oro alla carriera che, malgrado la sedia a rotelle per i postumi del malanno alla schiena, ha annunciato il suo ritorno presto sul set (per poi dedicare il premio "a tutti gli italiani che hanno ancora voglia d’indignarsi e le cui coscienze non sono appiattite da certa televisione"). E all’attrice Faye Dunaway, una cui bella foto anni Settanta campeggia quest’anno sulla locandina ufficiale del festival.
Ma a far venire l’acquolina in bocca a critici e cinefili è soprattutto il ricchissimo cartellone del concorso: venti pellicole, la maggior parte delle quali firmate da mostri sacri della cinepresa. Dopo averne vinte già due (nel 1999 con Rosetta e nel 2005 con L’enfant) si aggiudicheranno l’ennesima Palma d’oro i fratelli Dardenne per Il ragazzo con la bicicletta? Oppure sarà il danese Lars von Trier a fare il bis con Melancholia? O magari toccherà al nostro Nanni Moretti, attesissimo sulla Croisette per il suo Habemus Papam e assai amato dalla critica francese prima ancora di portarsi a casa la Palma d’oro nel 2001 per La stanza del figlio?
Il lotto dei favoriti, poi, non si ferma qui perché sperano di aggiudicarsi finalmente il massimo alloro, dopo aver già vinto tutto l’assortimento dei premi di contorno, pezzi da novanta come il pirotecnico spagnolo Pedro Almodòvar (La piel que habito), il corrosivo finlandese Aki Kaurismaki (Le Havre), il misterioso americano Terrence Malick (The tree of life) e l’immaginifico Paolo Sorrentino (italiano da esportazione che ha convinto la star Sean Penn ad accettare il ruolo da protagonista del suo This must be the place).
Impossibile fare pronostici. Anche perché la lunga storia del Festival di Cannes insegna che la sorpresa è sempre dietro l’angolo. Se dobbiamo allora scommettere su un out-sider, scegliamo il francese Alain Cavalier che porta in concorso Pater: un regista arrivato alla soglia degli 80 anni con spirito ancora giovanissimo; che ama i titoli in latino ricchi di significato (Libera me, altra sua suggestiva pellicola sulla Resistenza francese); che da laico affamato di spiritualità ha firmato uno dei più bei film di sempre a sfondo religioso, Thérèse (sull’appassionante vicenda umana di Santa Teresa di Lisieux). Cavalier è uno di quei rari registi che usa lo schermo come il pittore usa la tavolozza. E in un’edizione in cui Cannes celebra i grandi vecchi (oltre a Michel Piccoli, protagonista del film di Moretti, ospite d’onore sarà Jean-Paul Belmondo), potrebbe essere per lui la volta buona.
Di significativo c’è un tema che approda con forza sulla Croisette grazie proprio al cinema italiano: un disagio spirituale ormai diffuso. La fatica di "dire Dio oggi". La capacità di sintonia con l’uomo moderno che la Chiesa sembra aver smarrito. E’ questo, in fondo, il tema sotteso dal criticato eppur interessante film di Nanni Moretti. Ed è la stessa tematica portata in scena, pur se con stile e punto di vista diametralmente opposti, dalla debuttante Alice Rohrwacher con Corpo celeste, film in gara nella sezione parallela della Quinzaine des réalisatuers. Surreale e onirico Moretti, iperrealista e poetica la Rohrwacher. Incursore negli spazi misteriosi del Vaticano il primo, esploratrice a occhi spalancati della quotidianità di una chiesa della provincia italiana più profonda la seconda. Insomma, uno sguardo critico dall’alto e uno dal basso. Ma non per schernire o distruggere. Piuttosto per cercare di dare risposta a un bisogno comunque diffuso tra praticanti, blandi credenti o laici alla ricerca di verità: il ritorno a una fede profonda che traghetti l’uomo attraverso le difficili sfide della modernità.
Un testacoda dell’anima. È il segnale di un disagio forte che il cinema italiano porta al Festival di Cannes. Da una parte Nanni Moretti con il suo Habemus Papam, che tante polemiche ha suscitato in Italia e che non mancherà di catalizzare l’interesse dei critici di tutto il mondo sulla Croisette. Già vincitore della Palmad’oro con La stanza del figlio, giusto dieci anni fa, difficilmente Moretti riuscirà a bissarel’impresa, visto che in gara si scontreràcon pezzi da novanta come Woody Allen (Midnight in Paris), Pedro Almodóvar (La pielque habito), Terrence Malick (Tree of life), i fratelli Dardenne (Il ragazzo con la bicicletta), Lars von Trier (Melancholia), Aki Kaurismaki (Le Havre) e l’altro italiano Paolo Sorrentino (This must be the place).
Anche se il nostro personale pronostico va a Pater di Alain Cavalier, vero poeta della cinepresa. Rischia però seriamente di vincere il premiocome miglior attore Michel Piccoli che, a85 anni, nel film di Nanni dà la sua umanissima versione di un Pontefice mancato. Non per ignavia o per codardia, ma perché non all’altezza del compito di guidare la Chiesa verso i grandi mutamenti secondo lui necessari per vincere le ardue sfide della modernità. Una critica dall’alto all’impasse che inqualche modo sta attraversando la religione cattolica a cui fa da contraltare, con un fil rouge che attraverserà la Croisette spostandol’attenzione dal Palais alla sezione parallela della Quinzaine des réalisateurs, il film della esordiente Alice Rohrwacher: Corpo celeste racconta infatti un analogo disagio partendo dal basso, dalla quotidianità plastificata di una parrocchia di periferia del Sud Italia.
«A dire il vero, mentre giravo non mi sono neppure resa conto di
quanto profonde fossero le implicazioni di questa storia», confessa
Alice, 29 anni, sorella dell’attrice in ascesa Alba Rohrwacher e già
mamma di una bimba di 4 anni, Anita. «Dopo la laurea in Lettere a Torino
mi sono specializzata nel documentario a Lisbona. Ed è questo sguardo
realisticoche porto dietro la cinepresa. Quando il produttore Carlo
Cresto-Dina mi ha chiesto di fare un film indagando su un tema, ho
pensato alla Chiesa: il mondo che forse meno mi riguardava, ma più
attirava la mia attenzione».
– Nessun timore di critiche e polemiche?
«Non ci ho mai pensato. In quel periodo vivevo con mia figlia a
Reggio Calabria. Più che la vicenda m’interessava analizzare l’epoca in
cui viviamo. Che cosa voglia dire abitare questo tempo. Così spalancai
gli occhi, comeavrei fatto per un documentario, entrando dalla finestra
più piccola e vicina alla vita di tutti i giorni: le attività di una
moderna parrocchia di periferia, il catechismo, la preparazione alla
Cresima. Uno sguardo sull’Italia più vera, quella della provincia
profonda con la sua rassegnazione ai mali, a un degrado morale
quotidiano ma inconsapevole».
– Sguardo probabilmente prevenuto...
«Assolutamente no. Mi sono ritrovata a frequentare lezioni,
riunioni, corsi scanditi da quiz e giochi televisivi tipo “Saranno
testimoni”o “Chi vuol essere cresimato?”... Ho scoperto un mondo più
triste di quel che immaginassi. Nessuno che legge e spiega più il
Vangelo. Piuttosto, si scimmiottano le mode televisive. Mi sono sentita
un po’ un’aliena».
– Da qui l’idea del titolo, Corpo celeste?
«A colpirmi è stata la lettura delle prime pagine dell’omonimo
libro di Anna Maria Ortese:il meraviglioso senso di spaesamento nello
scoprirsi abitanti d’un corpo sospeso nello spazio. È così che mi è
comparsa davanti Marta, la protagonista della mia storia: un’adolescente
che cammina attraverso una città sconosciuta, alla ricerca della sua
via attraverso il mondo, più che al di là del mondo».
A 13 anni la bionda Marta, esile e forte come un giunco
(l’esordiente Yle Vianello), torna a vivere a Reggio Calabria con madre e
sorella dopo essere cresciuta in Svizzera. Emigrante al contrario per
colpa dello scarso lavoro e di non si sa quale crisi familiare. Il
rapporto con mamma Rita (la brava Anita Caprioli) è complice al punto
che lei, vedendo la figlia isolata, la iscrive al corso per la Cresima
sperando che faccia nuove amicizie. Marta però è più sensibile e matura
degli altri ragazzi. Vive come un’aliena la quotidianità della
parrocchia guidata da don Mario (Salvatore Cantalupo, già sarto in Gomorra)
con un crocifisso al neon e una catechista (la non professionista
Pasqualina Scuncia) che, pur di ottenere l’attenzione dei cresimandi,
insegna la dottrina col karaoke.
A Marta tutto questo non basta. È nel momento del passaggio
all’adolescenza, ma oltre che donna sembra voler diventare persona. Alla
ragazzina appare chiaro il disagio di don Mario, che agogna un posto
migliore e cerca d’ingraziarsi il vescovo procacciando voti per il
candidato della curia. In mezzo a tanto squallore, uno squarcio di luce:
Marta incrocia don Lorenzo (superbo Renato Carpentieri), vecchio prete
relegato in un paesino diroccato e spopolato dell’entroterra calabrese.
Lui sì che le racconta un Gesù che le piace! Ed è lì che don Mario va a
recuperare il grandecrocifisso ligneo della chiesa sconsacrata. Il segno
di una fede ritrovata?
Purtroppo, un testacoda dell’auto guidata dal religioso lungo
l’impervia strada costiera fa precipitare il crocifisso in mare dove,
ripulito dalle incrostazioni, Gesù galleggia tra gli scogli e le onde...
Un’immagine suggestiva che prelude alla chiusura, rivolta alla
speranza, del film.
– Alice, lei si definirebbe credente?
«Come Marta, sono affascinata da una certa visione del Cristo. Non
posso dire però di credere in Dio, perché questa parola così sublime
oggi è troppo legata alle chiese e agli uomini che le abitano. Ho una
visione religiosa dell’esistenza. Credo in una dimensione superiore
dell’essere».