Marion Cotillard nel film dei fratelli Dardenne. In alto: l'attrice fra i due fratelli registi.
Dal nostro inviato a Cannes
Come in ogni edizione del Festival di Cannes, delle ventinove alle quali ho partecipato, ero in attesa del momento magico. Di quella mattina in cui, seduto nella platea del Grand Théatre Lumière, sarebbe scattato il clic e, invece di preoccuparmi di come e che cosa dire per giudicare questo o quel film, avrei dimenticato tutto per lasciarmi prendere dalle immagini sullo schermo. Insomma, avrei scoperto la mia Palma d'oro del cuore. E al diavolo se la giuria, imprevedibile e bizzosa, mi avrebbe poi sbugiardato.
Ebbene, quel clic è scattato, due volte. Per due tra i titoli più attesi da spettatori e cinefili incalliti.
Il primo è stato un ritorno di fiamma irresistibile per un amore che ho cercato in ogni modo di contrastare. Luc e Jean-Pierre Dardenne, fratelli belgi francofoni che firmano all'unisono le loro pellicole, sono dei recordmen: presentatisi per sette volte sulla Croisette nelle varie sezioni, non sono mai, dicasi mai, tornati a casa senza un premio, più o meno grande che fosse. Ivi comprese due Palme d'oro: nel 1999 per
Rosetta e nel 2005 per
L'enfant – Una storia d'amore.
I loro film hanno una forza asciutta, elegante, senza orpelli. Dialoghi e musiche sono ridotti al minimo, esattamente come avviene nella realtà. Perché loro non fanno fiction ma raccontano storie della vita di tutti i giorni. La cinepresa s'incolla alla nuca, al cuore del protagonista e precipita lo spettatore in una vertigine di emozioni che nasce, sempre, da racconti minimi. E' come se i fratelli cineasti dicessero: fermati un attimo a guardare quella ragazzina che si arrabatta per tirare avanti facendo finta di non aver bisogni; o quella giovane coppia alternativa con un neonato in braccio; o quell'uomo apparentemente burbero che fa il rieducatore ma deve lui stesso imparare a perdonare.
Storie da nulla eppure capaci di centrare il cuore di grandi problemi: l'indigenza sociale, l'ingiustizia, la micro criminalità, il senso di paternità, l'immigrazione. E senza mai annoiare, anzi appassionando.
Cos'altro mai avrebbero potuto raccontare i Dardenne? Poi ecco le immagini della sommessa quotidianità di Due giorni, una notte. Lei è Sandra, mamma poco più che trentenne che vive in una periferia belga. Le difficoltà economiche, i due bambini piccoli, il lavoro in un'azienda che produce pannelli solari: forse troppo tutto assieme. Da mesi è in cura a causa della depressione.
Ma proprio quando, con gran sforzo, si accinge a rientrare a lavoro viene a sapere che sta per essere licenziata. Con il beneplacito di quasi tutti gli altri dipendenti, che si dividerenno il lavoro in più da fare spartendosi però un premio supplementare. Sandra vacilla. Il marito, amorevole nonché bisognoso di quella seconda entrata familiare, la incoraggia a reagire.
Sandra ottiene dal titolare che la votazione sul suo destino si ripeta il lunedì successivo.
Durante il weekend contatterà i compagni di lavoro uno ad uno, cercandoli a casa o dove trascorrono le ore di libertà. E con enorme sacrificio, fronte alla sua dignità e alle sue incertezze personali, chiederà a ognuno: “Lunedì, sei disposto a votare perché io mantenga il mio lavoro, di cui ho bisogno, rinunciando al premio?”. Cosa ci vorrà mai... Ogni faccia faccia sarà un confronto amaro, una ferita, uno squarcio di speranza oppure di disperazione. Perché ognuno di quegli altri metterà sul suo piatto della bilancia sogni, speranze, egoismi, pietismi. Per Sandra è davvero troppo. Ma quando non sembrerà più esserci via d'uscita, i Dardenne offriranno alla protagonista una conclusione. Non consolatoria, perché il loro cinema non lo è mai. Capace però di lasciare un segno profondo nell'anima di chi guarda.
Palma d'oro alla forza dei contenuti e alla delicatezza della forma.
Una scena di "The search".
Non per nulla la Giuria Ecumenica, che qui a Cannes segnala le pellicole
più significative e ricche di valori, ha già deliberato giorni fa di
celebrare il quarantennale assegnando a Luc e Jean-Pierre Dardenne un
Premio speciale “per l'insieme della loro opera”. Mai nessuno aveva
raccontato così profondamente e in modo tanto diretto il dramma della
perdita del lavoro e della dignità personale. Di piu', lo smarrimento
del senso di solidarietà tra chi lavora. Con un'ulteriore gemma:
abituati a scegliere per i loro protagonisti attori che non sono star,
capaci così di scomparire dietro i personaggi, stavolta i Dardenne hanno
corso un rischio affidando il ruolo di Sandra a Marion Cotillard.
La
beniamina del cinema francese, vincitrice del premio Oscar come miglior
attrice per il biopic su Edith Piaf e star anche oltreoceano, li ha
ripagati con un'interpretazione eccezionale, la più bella di sempre.
Senza un filo di trucco, l'espressione ora dolce ora dura, lo sguardo
vivo oppure perso nel vuoto della disperazione, la Cotillard disegna sul
suo volto l'intera gamma delle emozioni umane. Donna vera di un cinema
vero.
Assegnata in cuor nostro la Palma d'oro (la terza per i Dardenne sarebbe
un record assoluto), siamo tornati a sedere in platea per vedere The
search, il nuovo film di Michel Hazanavicius, cineasta parigino di
origini lituane che tre anni fa ha stupito il mondo, Hollywood compresa,
firmando The artist: film muto in bianco e nero sulla caduta di un divo
del cinema muto, gratificato con una valanga di premi e ben tre Oscar.
Anche qui la voglia era di trovare qualche difetto. Insomma, di non
cedere ai facili entusiasmi. Ma Hazanavicius ci ha conquistato filmando
un film totalmente diverso. Una storia durissima e poetica ambientata
durante la guerra di Cecenia del 1999. Una di quelle moderne guerre
subito dimenticate, in cui si parlava di azioni di anti terrorismo per
mascherare invasioni, assassinii di massa, oppressioni della popolazione
civile. Insomma, ciò che oggi sta accadendo in Siria.
Un pugno nello stomaco già la sequenza iniziale, ripresa attraverso
l'obietivo di una di quelle telecamerine a mano della Sony che tanto
erano in voga a fine anni Novanta. A impugnarla un giovane soldato
russo, che straparla e ride isterico mentre inquadra le rovine fumanti
del villaggio ceceno appena messo a ferro e fuoco dai tank. Peccato che
ci sia poca azione, la “battaglia” è già finita. Ma ecco i suoi compagni
scovare due “terroristi”, una coppia di contadini frastornata dalle
urla e dal terrore. Una sventagliata di mitra e via. La telecamerina si
spegne, il senso di distacco stile Tg scompare e l'immagine diventa
reale. Agghiacciante. Sui due corpi la figlia adolescente che piange.
Dietro la casa un bimbetto spaurito di nove anni, Hadji, che inforca lo
zaino e scappa stringendo in braccio il fratellino poco più che neonato.
Comincia così un tragico rimpiattino tra fratello e sorella che si
cercheranno per tutto il film. Il loro vagare ci mostrerà tutto l'orrore
di una cosiddetta guerra moderna. A intrecciare i loro destini saranno
una matura volontaria che gestisce un campo profughi a pochi chilometri
dal confine ceceno (una Annette Bening bellissima coi segni delle rughe e
della fatica) e la francese Carole, inviata dalla commissione per i
diritti dell'uomo della Comunità Europea per verificare sul campo e
stendere un rapporto (intensa e brava Bérénice Bejo, già interprete di
The artist). Il guaio è che più indaga, documenta, parla con i profughi,
più Carole si rende conto che il suo lavoro non servirà a nulla. Che la
Ue, esattamente come l'Onu, non farà altro che produrre dichiarazioni,
pezzi di carta che non fermeranno l'armata voluta dal presidente Eltsin e
dal primo ministro russo Putin. E lì fuori, per strada, ci sono donne e
bambini allo sbando. Come quel biondino affamato e solo che staziona
davanti al cancello di casa sua. Il primo pezzo di pane. Un sorriso. La
porta lasciata socchiusa.
Come un cucciolo spaurito, Hadji prende pian
piano fiducia: entra, siede, mangia, guarda... Ma non parla, non dice
nulla di chi sia o che cosa abbia visto. Carole lo scoprirà poco a poco,
mentre sentirà crescere dentro di sé quel senso materno che pensava di
non avere. Forse qualcosa può fare, almeno una: restituire la voglia di
vivere e il sorriso a quel bambino. Che però qualcuno sta cercando.
The search è un film complesso, di grosso sforzo produttivo, come tutte
le pellicole di guerra. Girato meravigliosamente da Hazanavicius, che
riesce a lasciare sullo sfondo la tragedia collettiva per portare in
primo piano una storia minima, di coraggio e magari di speranza.
Bravissime le due attrici protagoniste, dimentiche di ogni vezzo per
dare spessore umano ai loro personaggi. Ma straordinari sono tutti gli
interpreti ceceni, a cominciare da Abdul-Khalim Mamatsuiev che
interpreta il piccolo Hadji. Seduto al tavolo ufficiale del cast,
durante la conferenza stampa successiva alla proiezione del film, aveva
ancora quell'aria spaurita eppure affamata di vita che non
dimenticheremo.
Insomma, la giuria presieduta dalla regista neozelandese
Jane Campion è avvertita: quest'anno ci vorranno due Palme d'oro.
Impossibile per regolamento, lo sappiamo. Ma al cuore non si comanda.