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martedì 20 maggio 2025
 
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Quella mamma-operaia merita la Palma d'oro

22/05/2014  "Due giorni, una notte" dei fratelli Dardenne racconta come mai era stato fatto prima il dramma della perdita del lavoro e della solidarietà fra colleghi. Anche "The search", racconto duro, ma aperto alla speranza sulla guerra in Cecenia, ha i titoli per vincere. Ci vorrebbero due Palme d'oro...

Marion Cotillard nel film dei fratelli Dardenne. In alto: l'attrice fra i due fratelli registi.
Marion Cotillard nel film dei fratelli Dardenne. In alto: l'attrice fra i due fratelli registi.

Dal nostro inviato a Cannes

Come in ogni edizione del Festival di Cannes, delle ventinove alle quali ho partecipato, ero in attesa del momento magico.
Di quella mattina in cui, seduto nella platea del Grand Théatre Lumière, sarebbe scattato il clic e, invece di preoccuparmi di come e che cosa dire per giudicare questo o quel film, avrei dimenticato tutto per lasciarmi prendere dalle immagini sullo schermo. Insomma, avrei scoperto la mia Palma d'oro del cuore. E al diavolo se la giuria, imprevedibile e bizzosa, mi avrebbe poi sbugiardato.

Ebbene, quel clic è scattato, due volte. Per due tra i titoli più attesi da spettatori e cinefili incalliti. Il primo è stato un ritorno di fiamma irresistibile per un amore che ho cercato in ogni modo di contrastare. Luc e Jean-Pierre Dardenne, fratelli belgi francofoni che firmano all'unisono le loro pellicole, sono dei recordmen: presentatisi per sette volte sulla Croisette nelle varie sezioni, non sono mai, dicasi mai, tornati a casa senza un premio, più o meno grande che fosse. Ivi comprese due Palme d'oro: nel 1999 per Rosetta e nel 2005 per L'enfant – Una storia d'amore.

I loro film hanno una forza asciutta, elegante, senza orpelli. Dialoghi e musiche sono ridotti al minimo, esattamente come avviene nella realtà. Perché loro non fanno fiction ma raccontano storie della vita di tutti i giorni. La cinepresa s'incolla alla nuca, al cuore del protagonista e precipita lo spettatore in una vertigine di emozioni che nasce, sempre, da racconti minimi. E' come se i fratelli cineasti dicessero: fermati un attimo a guardare quella ragazzina che si arrabatta per tirare avanti facendo finta di non aver bisogni; o quella giovane coppia alternativa con un neonato in braccio; o quell'uomo apparentemente burbero che fa il rieducatore ma deve lui stesso imparare a perdonare. Storie da nulla eppure capaci di centrare il cuore di grandi problemi: l'indigenza sociale, l'ingiustizia, la micro criminalità, il senso di paternità, l'immigrazione. E senza mai annoiare, anzi appassionando.

Cos'altro mai avrebbero potuto raccontare i Dardenne? Poi ecco le immagini della sommessa quotidianità di Due giorni, una notte. Lei è Sandra, mamma poco più che trentenne che vive in una periferia belga. Le difficoltà economiche, i due bambini piccoli, il lavoro in un'azienda che produce pannelli solari: forse troppo tutto assieme. Da mesi è in cura a causa della depressione. Ma proprio quando, con gran sforzo, si accinge a rientrare a lavoro viene a sapere che sta per essere licenziata. Con il beneplacito di quasi tutti gli altri dipendenti, che si dividerenno il lavoro in più da fare spartendosi però un premio supplementare. Sandra vacilla. Il marito, amorevole nonché bisognoso di quella seconda entrata familiare, la incoraggia a reagire.

Sandra ottiene dal titolare che la votazione sul suo destino si ripeta il lunedì successivo. Durante il weekend contatterà i compagni di lavoro uno ad uno, cercandoli a casa o dove trascorrono le ore di libertà. E con enorme sacrificio, fronte alla sua dignità e alle sue incertezze personali, chiederà a ognuno: “Lunedì, sei disposto a votare perché io mantenga il mio lavoro, di cui ho bisogno, rinunciando al premio?”. Cosa ci vorrà mai... Ogni faccia faccia sarà un confronto amaro, una ferita, uno squarcio di speranza oppure di disperazione. Perché ognuno di quegli altri metterà sul suo piatto della bilancia sogni, speranze, egoismi, pietismi. Per Sandra è davvero troppo. Ma quando non sembrerà più esserci via d'uscita, i Dardenne offriranno alla protagonista una conclusione. Non consolatoria, perché il loro cinema non lo è mai. Capace però di lasciare un segno profondo nell'anima di chi guarda. Palma d'oro alla forza dei contenuti e alla delicatezza della forma.

Una scena di "The search".
Una scena di "The search".

Non per nulla la Giuria Ecumenica, che qui a Cannes segnala le pellicole più significative e ricche di valori, ha già deliberato giorni fa di celebrare il quarantennale assegnando a Luc e Jean-Pierre Dardenne un Premio speciale “per l'insieme della loro opera”. Mai nessuno aveva raccontato così profondamente e in modo tanto diretto il dramma della perdita del lavoro e della dignità personale. Di piu', lo smarrimento del senso di solidarietà tra chi lavora. Con un'ulteriore gemma: abituati a scegliere per i loro protagonisti attori che non sono star, capaci così di scomparire dietro i personaggi, stavolta i Dardenne hanno corso un rischio affidando il ruolo di Sandra a Marion Cotillard.

La beniamina del cinema francese, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice per il biopic su Edith Piaf e star anche oltreoceano, li ha ripagati con un'interpretazione eccezionale, la più bella di sempre. Senza un filo di trucco, l'espressione ora dolce ora dura, lo sguardo vivo oppure perso nel vuoto della disperazione, la Cotillard disegna sul suo volto l'intera gamma delle emozioni umane. Donna vera di un cinema vero.

Assegnata in cuor nostro la Palma d'oro (la terza per i Dardenne sarebbe un record assoluto), siamo tornati a sedere in platea per vedere The search, il nuovo film di Michel Hazanavicius, cineasta parigino di origini lituane che tre anni fa ha stupito il mondo, Hollywood compresa, firmando The artist: film muto in bianco e nero sulla caduta di un divo del cinema muto, gratificato con una valanga di premi e ben tre Oscar. Anche qui la voglia era di trovare qualche difetto. Insomma, di non cedere ai facili entusiasmi. Ma Hazanavicius ci ha conquistato filmando un film totalmente diverso. Una storia durissima e poetica ambientata durante la guerra di Cecenia del 1999. Una di quelle moderne guerre subito dimenticate, in cui si parlava di azioni di anti terrorismo per mascherare invasioni, assassinii di massa, oppressioni della popolazione civile. Insomma, ciò che oggi sta accadendo in Siria.

Un pugno nello stomaco già la sequenza iniziale, ripresa attraverso l'obietivo di una di quelle telecamerine a mano della Sony che tanto erano in voga a fine anni Novanta. A impugnarla un giovane soldato russo, che straparla e ride isterico mentre inquadra le rovine fumanti del villaggio ceceno appena messo a ferro e fuoco dai tank. Peccato che ci sia poca azione, la “battaglia” è già finita. Ma ecco i suoi compagni scovare due “terroristi”, una coppia di contadini frastornata dalle urla e dal terrore. Una sventagliata di mitra e via. La telecamerina si spegne, il senso di distacco stile Tg scompare e l'immagine diventa reale. Agghiacciante. Sui due corpi la figlia adolescente che piange. Dietro la casa un bimbetto spaurito di nove anni, Hadji, che inforca lo zaino e scappa stringendo in braccio il fratellino poco più che neonato.

Comincia così un tragico rimpiattino tra fratello e sorella che si cercheranno per tutto il film. Il loro vagare ci mostrerà tutto l'orrore di una cosiddetta guerra moderna. A intrecciare i loro destini saranno una matura volontaria che gestisce un campo profughi a pochi chilometri dal confine ceceno (una Annette Bening bellissima coi segni delle rughe e della fatica) e la francese Carole, inviata dalla commissione per i diritti dell'uomo della Comunità Europea per verificare sul campo e stendere un rapporto (intensa e brava Bérénice Bejo, già interprete di The artist). Il guaio è che più indaga, documenta, parla con i profughi, più Carole si rende conto che il suo lavoro non servirà a nulla. Che la Ue, esattamente come l'Onu, non farà altro che produrre dichiarazioni, pezzi di carta che non fermeranno l'armata voluta dal presidente Eltsin e dal primo ministro russo Putin. E lì fuori, per strada, ci sono donne e bambini allo sbando. Come quel biondino affamato e solo che staziona davanti al cancello di casa sua. Il primo pezzo di pane. Un sorriso. La porta lasciata socchiusa.

Come un cucciolo spaurito, Hadji prende pian piano fiducia: entra, siede, mangia, guarda... Ma non parla, non dice nulla di chi sia o che cosa abbia visto. Carole lo scoprirà poco a poco, mentre sentirà crescere dentro di sé quel senso materno che pensava di non avere. Forse qualcosa può fare, almeno una: restituire la voglia di vivere e il sorriso a quel bambino. Che però qualcuno sta cercando.

The search è un film complesso, di grosso sforzo produttivo, come tutte le pellicole di guerra. Girato meravigliosamente da Hazanavicius, che riesce a lasciare sullo sfondo la tragedia collettiva per portare in primo piano una storia minima, di coraggio e magari di speranza. Bravissime le due attrici protagoniste, dimentiche di ogni vezzo per dare spessore umano ai loro personaggi. Ma straordinari sono tutti gli interpreti ceceni, a cominciare da Abdul-Khalim Mamatsuiev che interpreta il piccolo Hadji. Seduto al tavolo ufficiale del cast, durante la conferenza stampa successiva alla proiezione del film, aveva ancora quell'aria spaurita eppure affamata di vita che non dimenticheremo.

Insomma, la giuria presieduta dalla regista neozelandese Jane Campion è avvertita: quest'anno ci vorranno due Palme d'oro. Impossibile per regolamento, lo sappiamo. Ma al cuore non si comanda.

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