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Ricorrenze
 

Caporetto, cent’anni fa la grande disfatta

24/10/2017  Per tutti gli italiani è da sempre sinonimo di sconfitta. Ma pochi sanno che fu una grande tragedia di civili che provocò un esodo biblico di 500 mila italiani. Quando i profughi parlavano veneto e friulano.

Il sinonimo di ogni disfatta, per un italiano, porta il nome di un piccolo villaggio adagiato dolcemente sulle rive dell’Isonzo, poco oltre l’invisibile confine con la Slovenia; in tutto millecento anime, una ex fabbrica di cioccolato e una piazza-crocevia. Kobarid, il suo nome slavo, non ci dice ancora nulla. È nella nostra lingua che si materializza la memoria della più grande sconfitta militare dell’esercito italiano, così grave che Mussolini ne aveva perfino cancellato il nome dalle carte geografiche: Caporetto.

Giusto un secolo fa, il 24 ottobre 1917, una manovra lampo concertata dagli austro-tedeschi a fondovalle sorprese le truppe italiane, prendendole alle spalle e lasciandole senza ordini. In poche ore gli eserciti alleati di Austria e Germania arrivarono a Caporetto a passo di carica. La battaglia qui era già persa. E la via per la pianura friulana era spianata.

«Le truppe austriache e tedesche raggiunsero in soli due giorni Cividale del Friuli. L’esercito italiano aveva perduto in 48 ore quanto aveva conquistato con enormi costi umani in due anni e mezzo di guerra di trincea», commenta lo storico Daniele Ceschin, studioso della Grande Guerra, autore del volume Gli esuli di Caporetto (Laterza). «Gli austro-tedeschi in meno di un mese catturarono 294 mila italiani; e una cifra ancora superiore di sbandati, abbandonate le posizioni sul Monte Nero e il Matajur, si rovesciò in preda al terrore nelle campagne friulane e venete, rincorsi dal nemico». Il generale Cadorna decise allora di ripiegare prima sul Tagliamento e poi sulla linea del Piave, ben più difendibile.

E qui inizia un’altra storia, meno nota «perché entrata nel cono d’ombra della rimozione storica di Caporetto», come osserva Ceschin, cioè quella dell’esodo biblico delle genti friulane e venete: un evento senza precedenti nella storia del Regno d’Italia. Tutto si consuma in poche settimane, dal 24 ottobre al riposizionamento delle truppe italiane sul Piave, cioè al 9 e 10 novembre, quando gli artificieri faranno saltare gli ultimi ponti sul Fiume sacro alla Patria. Pochi giorni, ma capaci di terremotare l’intero Triveneto e tutta la nazione.

«Udine è la prima grande città che viene bombardata ed evacuata. Immaginate quale impressione potesse fare per i civili che abitavano quelle pianure vedere le proprie truppe ritirarsi così in disordine. Lo scenario più drammatico è tra Pordenone e Conegliano Veneto, dove transitano circa 350 mila soldati sbandati», spiega lo storico. A essere coinvolte dall’invasione austro-tedesca sono due intere province: quelle di Udine e di Belluno, metà Marca trevigiana e una quindicina di Comuni del Veneziano, compreso il capoluogo lagunare. In tutto oltre trecento Comuni. A fuggire da quest’area sono in 230 mila civili. Ma a questi si devono aggiungere anche coloro che abitavano il Veneto non occupato. In tutto si calcola che oltre mezzo milione di sfollati e profughi in sole sei settimane si riversino nel resto d’Italia da quello che oggi è chiamato il Nordest. Una massa incontrollata di immigrati che lasciano in fretta tutto alle spalle: casa, terre, beni, comunità.

«Mi trovavo a San Giorgio di Nogaro (Comune della bassa Friulana, ndr). Davanti al cimitero c’erano le baracche dei feriti che erano state bombardate qualche giorno prima. Ho visto un finimondo: un mondo di fuoco in lontananza. Esplosioni che facevano grandi, immense fiammate, e poi il fumo. Il sergente maggiore che era con me disse “dai, dai”. Ci siamo riempiti il tascapane con qualcosa da mangiare; mi son preso la bicicletta da corsa, con il manubrio basso che mi ero comperato con i soldi guadagnati da militarizzato, e siamo partiti. Le strade erano piene di carreggi, di gente che scappava: donne con i bambini in braccio, con i fagotti, animali. Anche i campi erano pieni di gente che scappava». Questa è la testimonianza di Luigi Disastri, civile militarizzato, classe 1900, uno dei tanti esuli intervistati da Camillo Pavan, un trevigiano che con la passione del neofita in questo campo ha raccolto, tra il 1984 e il 1999, 160 interviste a testimoni oculari della Grande Guerra, che all’epoca di Caporetto erano ragazzini o giovani. Materiale che è diventato un libro (In fuga dai tedeschi) e un archivio on line preziosissimo che immortala e conserva a futura memoria quest’epopea dolorosa.

«Tutta l’Italia scappava», continua la testimonianza registrata di Disastri: «Scappavano i feriti, gli ammalati. Non c’era alcun ordine. Sembravano mosche. Un finimondo. I carabinieri scappavano anche loro, o erano scappati prima. Arrivati nella località di un’ultima battaglia, i treni erano fermi; forme di formaggio venivano buttate a terra e spaccate. Anch’io mi gettai su uno di quei pezzi. Ognuno prendeva quello che riusciva. L’esercito italiano non esisteva più. Tutti sbandati, con un altro esercito che ci inseguiva».

Ma chi sono questi esuli? «È la piccola borghesia – precisa Ceschin – chi lavorava ai servizi e all’indotto dell’economia militare, ma anche contadini, mezzadri, possidenti». Un fiume di sfollati che si muove seguendo due direttrici: la prima verso Milano, dove ne transitano 62 mila e ne restano oltre 20 mila, e quindi il Piemonte e la Liguria. La sola Alessandria ne ospita 12 mila. Gli altri verso il Centro Italia e il Sud. «Firenze diventerà la capitale dei profughi, perché vi si fermano le amministrazioni comunali scappate dopo Caporetto», precisa lo storico. A Napoli ne passano altri 70 mila. Perfino a Cagliari ne arrivano 98.

I profughi viaggiano in tradotte anche per 15 giorni di seguito, senza poter mai scendere, né sapere dove verranno ospitati. «I prefetti requisiscono alloggi, chiese, fabbriche dismesse, ma anche alberghi e ostelli, con l’ostilità dei proprietari che si riuniscono in comitati antiprofughi».

Ma tantissime sono anche le testimonianze di solidarietà. Come quella raccolta da Pavan a Vidor, nel Trevigiano, da Rosa Cortesia, contadina che all’epoca aveva nove anni: «Arrivati a Ruvo di Puglia ci hanno sistemato nel palazzo vescovile. La gente per strada ci accolse bene. Ci siamo trovati benissimo. All’inizio i paesani venivano a vedere chi erano i “profùmi”: così ci chiamavano perché non conoscevano il significato di “profugo”. Però ogni giorno ci portavano cibo, farina bianca per fare il pane e fichi secchi». Nascono comitati e associazioni per raccogliere fondi. La Chiesa istituisce la nuova figura del cappellano dei profughi, su felice intuizione di monsignor Andrea Longhin, allora vescovo di Treviso. All’esule che non lavorava spettava un sussidio ordinario di una lira e 25 centesimi. Poca roba, ma sufficiente per essere alla lunga additato come “mangiasoldi”. «E quelli che invece lavoravano “rubavano” il lavoro ai locali, era il commento frequente». Pregiudizi, dialetti incomprensibili tra loro, contesto bellico, povertà diffusa non faranno che aumentare diffidenze e intolleranza. Cent’anni dopo, tutto è cambiato, ma la storia per certi versi sembra ripetersi.

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