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domenica 26 marzo 2023
 
 

Capossela: «Siamo tutti greci»

30/07/2013  «La crisi non deve farci dimenticare i debiti che abbiamo nei confronti della civiltà ellenica», dice il cantautore, protagonista del docufilm "Indebito". Ad esempio il rebetiko, la musica di ribellione alle violenze della storia.

In tempi in cui “Grecia” è sinonimo di “spauracchio”, anche Vinicio Capossela ha voluto dire la sua sul tema. Dopo averle dedicato un disco (Rebetiko Gymnastas) e un libro (Tefteri, libro dei conti in sospeso), ora è in arrivo il film documentario Indebito, che aprirà il Festival di Locarno il 7 agosto e che sarà nelle sale italiane in autunno.

Anche qui è questione di debiti e crediti, di “spread” rivisitati in chiave musicale: «Ho fatto qualche viaggio – spiega Vinicio – con il registratore e il taccuino, il mio ‘tefteri’, il quadernetto sul quale il negoziante di alimentari si segna la spesa dei suoi clienti, i debiti che contano di saldare a fine mese. E su quello ho segnato diversi debiti e crediti che ho personalmente riguardo a questo Paese e alla sua musica. I debiti sono sempre gli insegnamenti umani, i crediti quello che si cerca di restituire. Per restituire il credito, ho cercato di destare curiosità e di fare conoscere maggiormente questa musica, il rebetiko, dalla parola turca ‘rebet’, ribelle».

Il rebetiko, una sorte di blues ellenico nato dalla disperazione di una crisi d’inizio Novecento (la fuga da Smirne, 1922), è una delle musiche che hanno costruito l’identità moderna della Grecia, trasportando con sé il dolore dell’esilio e la ribellione alle violenze della storia. «È una musica contro il potere, non autorizzata, indebita», dice Andrea Segre, il regista del film scritto a quattro mani con Capossela. Segre, autore di Mare Chiuso e Io sono Li, spiega: «Abbiamo girato tutto con tre camere a mano, ma non sporche. Inquadrature instabili che cercano di essere stabili. Concerti notturni, parole che diventano musica e musica che ascolta le parole. E le città di giorno, la poesia del cemento, i segni della rabbia sui muri, le vetrine e la decadenza della crisi. È un film costruito nel solco del cinema-documentario, ma lasciando spazio a momenti di messa in scena teatrale che cercano dialogo anche con il repertorio e la memoria».

Ecco un assaggio del film:
 

Tra le taverne di Salonicco e Atene e le strade di Ikaria e Creta, Segre e Capossela, accompagnati dal baglamas, il minuscolo strumento che i rebetes nascondevano in prigione, usato come una specie di forcina da rabdomante, rileggono la Grecia indebitata, che soffre e ha sofferto. Ma che reagisce con le note del rebetiko: «Da molto tempo – spiega Vinicio - ho a cuore questa musica, oltre che per la sua bellezza e la sua forza, per la carica eversiva interiore che accende. Mantiene vive le parti anticonvenzionali di noi stessi, la fierezza, l’avversione al compromesso. Sbatte contro la verità senza averne paura. Non è che dà coraggio, è che toglie la paura del dolore, ce lo fa amico, compagno, come Francesco diceva della sorella morte corporale».

Da qui, per gli autori, la carica politica del film: «La frase “Non siamo mica la Grecia”, dovrebbe essere sostituita dalla più kennediana “Siamo tutti greci”, perché in Grecia è in questo momento più scoperto ed evidente il meccanismo economico, sociale, politico in via di sperimentazione in tutti gli altri Paesi”. Secondo Andrea Segre, la crisi diventa quindi un’occasione per riflettere sull’identità: «Il documentario è dedicato ad ascoltare l’assenza di noi stessi. È la consapevolezza di vivere in-debito d’aria, di senso, di prospettiva, perché la crisi di oggi prima che economica è identitaria. È separazione, disorientamento. Le culture europee sono state svendute all’omologazione del consumo e alla corsa alla ricchezza; ci hanno fatto credere che la liberazione dalla povertà materiale dovesse coincidere con la fuga da se stessi. Vivere oggi di nuovo la povertà senza se stessi è una vertigine insostenibile».

E così, nel film, la Grecia diventa l’Europa, la sua crisi la nostra
e il rebetiko il canto vivo di un’indebita e disperata speranza.

 
 
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