Nell’epoca della globalizzazione, anche le carceri italiane sembrano... connesse. E così le proteste dei detenuti, partite sabato nel carcere di Salerno, si sono diffuse in pochissimo tempo negli istituti penitenziari di Frosinone, Pescara, Modena, Foggia (dove sono evasi dei reclusi, poi comunque ripresi), Pavia (due agenti sequestrati), Poggioreale e San Vittore a Milano dove una quindicina di detenuti sono saliti sul tetto al grido di “Libertà”. Un po’ in tutte le carceri italiane pare sia in atto la “battitura” di oggetti contro le sbarre da parte dei detenuti, una forma tutto sommato pacifica di contestazione. A oggi, sono 22 le carceri (su 190) dove sono in corso proteste. Sette, finora, i detenuti morti: sei di questi nel carcere di Modena, due dei quali - secondo le fonti istituzionali - per overdose di oppiacei rubati in infermeria durante la devastazione delle celle. I detenuti ricoverati sono in tutto 18, in gran parte per intossicazione. Una protesta, questa, che sta dilagando come un virus e che, per assurdo, ha origine proprio dalle direttive alle carceri per l’emergenza Coronavirus che riguardano, in particolare, la sospensione dei colloqui visivi con i familiari.
Una misura di protezione, perché se il virus dovesse entrare in carcere si rischierebbe un contagio pericoloso, ma che di fatto si traduce in un isolamento ancora più rigido: i detenuti, infatti, in questo periodo subiscono anche la sospensione della maggior parte dei permessi, la mancanza di attività didattiche e trattamentali e, quasi dappertutto, la limitazione di accesso dei volontari. A fronte di queste restrizioni, è stato concesso un numero maggiore di telefonate a casa (attualmente, ogni detenuto ha diritto a una chiamata settimanale di 10 minuti, si dovrebbe passare da 4 a 6 telefonate) e un incremento delle videochiamate. Sulla carta. Nei fatti, però, non è così: i sistemi Skype, infatti, sono un’utopia in molti penitenziari italiani. Le telefonate in aggiunta non sono sempre possibili, per motivi organizzativi e strutturali.
"Il ruolo dei cappellanni in questo momento è ancora più importante"
L’Associazione Antigone, per i diritti e le garanzie del sistema penale, mentre si appella ai detenuti perché interrompano le proteste, nello stesso tempo si rivolge all'Amministrazione Penitenziaria affinché - spiega il presidente, Patrizio Gonnella – si possano “compensare le legittime e ragionevoli misure di prevenzione del contagio”, prevedendo “l’ampliamento della possibilità di telefonate a casa (anche attraverso l'utilizzo di skype) e la concessione degli arresti domiciliari per tutti i detenuti che potrebbero accedere a queste misure”.
Un punto di vista che trova d’accordo le varie associazioni di volontariato penitenziario. Francesco Lo Piccolo, presidente di “Voci di dentro”, una realtà abruzzese molto attiva nel settore, arriva a chiedere “scarcerazione e domiciliari per detenuti anziani o malati; indulto per residui brevi di pena; scarcerazione delle 54 mamme con i loro 59 bambini attualmente detenuti nelle carceri italiane e blocco dei nuovi ingressi per reati lievi”. Tanto più, poi, se si considera che gli istituti italiani vantano un primato europeo di sovraffollamento: 61.230 detenuti per 47.231 posti effettivi disponibili. I dirigenti dell'associazione Nessuno tocchi Caino - Sergio D'Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti – sottolineano che "se si chiudono scuole o stadi per evitare che troppe persone stiano insieme, allora la principale misura da adottare anche in carcere deve essere quella di una moratoria immediata dell'esecuzione penale volta a ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria”. Di contro, Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) - il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri - ricorda che “proprio pochi giorni fa il Sappe ma anche altri Sindacati della Polizia Penitenziaria hanno dichiarato lo stato di agitazione e la sospensione delle relazioni sindacali con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per l’assenza di provvedimenti che contrastino le continue violenze in carcere e le aggressioni alle donne e agli uomini in divisa”.
E Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, invita a superare “un concetto di prevenzione fondata sulla chiusura al mondo esterno, affiancando a provvedimenti di inevitabile restringimento misure che diano la possibilità di ridurre le criticità che la situazione carceraria attuale determina e che permettano di affrontare con più tranquillità il malaugurato caso che il sistema sia investito più direttamente dal problema”. A continuare il loro impegno sono i sacerdoti.
Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, spiega: “Il Coronavirus, con le conseguenti ristrettezze, che coinvolgono insieme a tutta la popolazione italiana anche i detenuti, è, evidentemente, un pretesto: i motivi delle rivolte sono numerosi, il più urgente è il sovraffollamento. In questo momento, il ruolo di noi cappellani, tra le poche figure a potere continuare a entrare negli istituti, è importantissimo: siamo chiamati a dare fiducia e speranza non soltanto ai detenuti, ma a tutti gli operatori, agli agenti di Polizia penitenziaria, ai responsabili...”. E poi don Grimaldi, attraverso Famiglia Cristiana, lancia un appello alla politica: “Ciò che pesa di più è il sovraffollamento. Lo Stato dovrebbe prendere posizione per risolvere il problema e, nel contempo, risolvere la carenza di personale che rende critiche queste situazioni di protesta”.
Secondo l’ispettore dei cappellani, non ci sono i tempi tecnici per provvedimenti strutturati: “Da tante parti si invocano indulto e amnistia: mi rendo conto che a livello politico non è facile adottarli, tuttavia qualche soluzione è urgente: ad esempio, chi ha residui di pena bassa potrebbe scontarla presso i servizi sociali, oppure prevedere misure apposite per chi è in attesa di giudizio o ha un lavoro esterno al carcere durante il giorno...”. E conclude: “Noi cappellani siamo la luce della Chiesa all’interno del carcere, la nostra presenza serve per fasciare le ferite, consolare, annunciare la Parola, sensibilizzare a una conversione di vita, perché il detenuto non va soltanto abbracciato, ma anche aiutato a prendere coscienza dei propri errori. Il nostro è un messaggio di speranza lanciato a tutti, nella consapevolezza di essere, come Chiesa, un vero ospedale da campo”.