Nelle ultime due settimane diverse drammatiche notizie: a Lecco un anziano di 86 ha ucciso la moglie, da lungo tempo invalida a letto e gravemente sofferente, per poi telefonare al figlio e confessare il proprio dramma. A Casoli (n provincia di Chieti) un figlio ha ucciso la madre di 80 anni,e poi ha tentato il suicidio. A Ortona un settantenne si è ucciso, dopo aver ucciso il proprio fratello disabile. E sono solo i più recenti (e purtroppo non saranno gli ultimi) di tanti episodi in cui la disperazione vince, dopo troppi anni di dedizione, a fianco di un letto, curando la persona amata, magari da decenni. Spesso quindi questa disperata pietà dà la morte al proprio caro e poi si rivolge contro se stesso o se stessa, nell’angosciato grido di chi non riesce nemmeno più a chiedere aiuto, non se lo aspetta più da nessuno.
Queste notizie scuotono sempre, perché nessuno di noi riesce ad essere tranquillo; nessuno di noi può dire “questa storia non mi colpirà mai”. Ogni famiglia ha nel corso della sua vita persone fragili, dipendenti, spesso per brevi periodi, spesso per lunghissimi anni, o anche per tutta la vita, come nel caso di tanti figli disabili, che i genitori accolgono comunque, ma verso i quali, al termine della propria vita, si rinnova quella domanda inquietante: “E quando noi non ci saremo più, a chi affideremo nostro figlio?”. E se non si riesce a dare risposta, a confidare in qualcun altro, allora la belva della disperazione vince nuovamente. Anzi, il 17,4% della popolazione italiana, già oggi, sta curando almeno una volta la settimana un proprio familiare bisognoso, a volte per poche ore, a volte anche oltre 20 ore la settimana, ogni settimana, per tutto il mese, per tutto l’anno, ogni festa comandata, senza vacanze…. E sono molte le persone con più di 55 o di 65 anni che svolgono quotidianamente questa cura, o per il proprio partner malato, o per un figlio disabile, in un fase della loro vita in cui loro stessi avrebbero probabilmente bisogno di sostegno, o almeno di un po’ di sollievo. Insomma, essere caregiver familiare non è una condizione di pochi, un passaggio circoscritto a limitati contesti familiari: è molto probabile che tocchi a ciascuno di noi, prima o poi, essere caregiver di riferimento per un proprio familiare- quando non essere noi stessi, infine, i bisognosi di queste cure familiari, dal proprio partner, dai propri figli o parenti (ed è meglio non dimenticare quanto sia difficile sentirsi un peso, in questi casi…).
E allora occorre sollevare il velo dell’indifferenza e della dimenticanza, chiamando la società tutta a maggiore consapevolezza di questa emergenza umanitaria diffusa, che riguarda tantissime famiglie, che è nascosta in tantissime case del nostro Paese, in cui le persone curano amorosamente i propri cari, al punto da esaurire le proprie risorse fisiche, relazionali, economiche, mentali e psicologiche, fino alla disperazione, soprattutto perché, alla fine, si sentono sole e abbandonate. Non si tratta solo di individuare sostegni economici e servizi pubblici a domicilio – che pure sono assolutamente indispensabili ed urgenti, perché ancora gravemente insufficienti in tante aree d’Italia - ma soprattutto di non lasciare soli i propri familiari o i propri vicini di casa, di condividere il peso delle cure, le responsabilità, le difficili decisioni sanitarie. Solo con una reale prossimità, solo con un accompagnamento discreto ed affidabile della società queste famiglie e questi caregiver potranno resistere alla disperazione e alla drammatica fatica che schiaccia lo sguardo a terra e non fa più respirare. Che poi li chiamiamo caregiver, perché in inglese questa condizione sembra quasi “meno grave”: di fatto parliamo di qualcuno che decide di dedicare un pezzo della propria vita alla cura di qualcun altro nella propria famiglia, spesso perché “non ci sono alternative”. Come definire questo generoso dono di sé, questa promessa di cura “nella buona e nella cattiva sorte” che diventa impegno concreto e quotidiano.
Bene comunque ha fatto il sindaco di Lecco a dichiarare, dopo il tragico evento: “nessuno può giudicare questo gesto”, perché questa condizione va attraversata, prima di poterla giudicare. Ma dobbiamo anche aggiungere: “nessuno venga lasciato solo”, al capezzale di un malato, di un disabile, di un anziano non autosufficiente bisognoso di cure quotidiane. Perché la disponibilità di farsi carico con amore dei propri familiari possa continuare a svilupparsi è indispensabile che non ci si senta soli, e che si possa pensare che qualcun altro ti aiuterà a sopportare quel peso, rendendolo più leggero: non più facile, non meno doloroso, ma più lieve, perché sopportato insieme. E questo riguarda ogni persona, ogni comunità locale, nelle reti di parentela e nelle relazioni interpersonali di vicinato, ma riguarda con ancora maggiore forza l’azione politico-amministrativa: in particolare la legge nazionale sui caregiver, finalmente approvata nel 2018, deve ancora diventare operativa, ed è urgente che venga attuata, per sostenere davvero, con strumenti concreti e duraturi, la grande disponibilità alla cura che tuttora viene sviluppata nelle nostre famiglie, ma che rischia di avvizzirsi e di esaurirsi, se rimane abbandonata a se stessa.
*Francesco Belletti, Direttore Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia)