Porta il nome del noto presentatore televisivo e come lui è un fiume in piena quando parla. Fiorello Miguel Lebbiati, operatore Caritas, madre rom e papà sinto, è il capofila di un gruppo di giovani rom e sinti che hanno “preso carta e penna” per scrivere ai giornalisti italiani che è ora di finirla con i titoli ad effetto. Insomma, basta con gli “zingari brutti e cattivi”. Perché dallo stereotipo alla molotov il passo è breve. «Stavo mangiando con mia figlia, mentre i telegiornali passavano le notizie su “Mafia capitale”, con giornalisti che mettevano il microfono davanti a rom e sinti, con il solo obiettivo di enfatizzare lo stigma, le telecamere nei campi a mostrare il peggio. Guardavo mia figlia seguire muta queste immagini. Mi sentivo a disagio perché una bambina ne viene turbata, si vergogna. Come potevo spiegarle il significato della parola odio? A lei che certamente non si riconosce in tutto questo. Allora, ho contattato alcuni amici, ci siamo ritrovati con la stessa stanchezza per tutto questo, e ne è scaturita una lettera aperta ai media”. A scriverla, oltre a Fiorello, sono Joselito, Damiano, Gladiola, Husovic, Serena, Dolores, Ivana, Sead, Sabrina e Pamela. Ragazzi e ragazze, dai 17 ai 33 anni, per lo più studenti, ma c’è anche chi lavora nel sociale, una cuoca, una parrucchiera e una filmaker. «Alcuni sono italiani, altri provengono da vari Paesi europei, altri ancora sono nati in Italia, ma di fatto sono sempre stranieri, grazie all’accoglienza burocratica del nostro Paese», comincia così la lettera, che ha più il sapore dell’impegno per costruire un nuovo futuro. «Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando per dare voce al nostro popolo, finora rimasto legato e imbavagliato», che della recriminazione, anche se qualche volta Fiorello ne avrebbe ben donde.
«Sono italiano», aggiunge Fiorello, «così quando vado in giro per il mondo, mi becco del mafioso e mangia spaghetti, mentre, quando sono a casa mia, mi toccano tutti gli stereotipi dei rom, io poi sono pure comunista…».
Fiorello Miguel Lebbiati
- Rom e sinti tutti buoni, dunque?
«Non si può negare che ci sia un mondo un po’ viziato, fuori dalla norma, risultato anche delle politiche fallimentari. Ma bisogna smetterla di dare voce solo a una parte. I delinquenti ci sono, ma rubare per dar da mangiare ai figli è un’altra cosa, io distinguo tra omicidio colposo e omicidio preterintenzionale. La lettera invita le persone ad ascoltare anche la nostra verità. L’informazione troppo spesso viene distorta e nessuno sa che noi siamo uno dei popoli da sempre più attaccati e stigmatizzati. Per esempio, non è vero che il nomadismo ci caratterizza, siamo nomadi perché siamo dovuti fuggire dall’India, la nostra shoah inizia nell’anno 1000. Noi vogliamo fare controinformazione, smuovere le persone oneste, portare l’attenzione sulle nostre storie. Invece, l’Italia che fa? Il mio Paese, che ha lottato contro il fascismo, mantiene ghetti, campi di concentramento per i rom, è una follia».
- Che cosa pensa dovrebbe fare l’Italia?
«I rom non vogliono vivere nei campi. Chi ci vorrebbe vivere? L’Italia è l’unico Paese che ha istituzionalizzato i campi. Invece, bisognerebbe creare posti abitativi nuovi, moderni, case a impatto zero. Dove più persone di culture diverse possano convivere, con spazi dove la gente possa socializzare, questo è il mio sogno. Ma, dovendo fare un passetto alla volta, intanto basterebbe che rom e sinti potessero avere i documenti, il permesso di soggiorno, la cittadinanza. Ci sono ragazzi di seconda generazione che non sono ancora cittadini italiani, per tutto il meccanismo assurdo che esiste nella nostra burocrazia. In sintesi, campi chiusi e politiche di inclusione».
- “I rom e i sinti rubano, sono tutti delinquenti, vogliono vivere ai margini della società”: da dove nascono, secondo lei, gli stereotipi, alcuni dei quali avete citato nella lettera?
«Ai media piace raccontare in un certo modo. Nei titoli si sottolinea l’etnia e molto nasce da lì. Con il risultato che ci sono tanti rom “invisibili”, perfettamente inseriti nel tessuto sociale, che si vergognano a raccontare la propria origine, perché temono di perdere casa e lavoro. In Italia c’è un razzismo pesante, che la crisi ha accentuato, e allora diventa facile prendersela con il più debole, il “diverso”. E, se ti imboccano un nemico, il resto va da sé».
- Sottolineate anche la vostra sensazione di paura.
«Ultimamente la parola paura si è materializzata, attraverso le molotov, i commenti razzisti. Ma la paura non è tanto per quello che subisco io oggi, che un po’ ci sono abituato e ho le spalle forti. La mia paura è per le nuove generazioni, per i bambini, loro sono persone positive, ma a forza di sentire certi messaggi il rischio è che il pregiudizio diventi odio reale nei cuori, da entrambe le parti. Il bambino cresce e, da teenager, diventa un attivista. Questo è un fatto grave, non deve succedere».
- Per questo avete scritto: «Mettendoci nei panni di chi non sa niente di questo antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e inizieremmo a non volerli più nella nostra Italia. E se fossimo bambini, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e innaffiato bene tutti i giorni, da grande non solo odieremmo i rom e i sinti, ma saremmo pronti a ucciderli, non per cattiveria, ma per difenderci e per difendere la “nostra” Italia dai cattivi e sporchi rom e sinti». È un rischio che corrono tutti gli emarginati?
«Guardiamo agli immigrati, che fuggono da Paesi in guerra. Pensano di arrivare in un luogo accogliente e si ritrovano invece in un Paese in cui sono odiati a priori; costantemente attaccati, prima o poi cominceranno a provare il sentimento che gli autoctoni provano per loro. I nemici sono altri, i massimi sistemi economici, non siamo noi, gente comune, che lotta tutti i giorni per mangiare, per la casa, per la famiglia. Stiamo attenti a capire bene chi è il nemico. Altrimenti, sarà una guerra tra poveri».
Giornalisti e politici devono fare la propria parte. Gli uni – dice ancora la lettera aperta – per «non essere complici e artefici dell’istigazione all’odio, della paura e della distanza tra la gente», gli altri «per agire insieme per politiche di vera inclusione sociale compartecipata». Ed ecco la richiesta finale di Fiorello e dei suoi amici: «Verità e dignità per il nostro popolo, per scrivere insieme una nuova pagina».